La blockchain, letteralmente “catena di blocchi”, è una tecnologia che consente lo scambio di informazioni tra server denominati “nodi”, che le registrano e le archiviano con conseguente garanzia della relativa autenticità.
Essa suggerisce due ordini di riflessioni: l’una, seppur breve, di ordine antropologico; l’altra riguarda le innovazioni che, dalla sua applicazione, possono derivare per il nostro mercato del lavoro.
Sul piano della prima riflessione, la blockchain esprime la contraddizione in termini della rivoluzione tecnologica che, da un lato, rischia di compromettere i legami di fiducia tra uomini, perché l’e-commerce si sostituisce al venditore al dettaglio, i Mooc (Massive Open Online Course) ai professori, il recruitment artificiale a quello umano, dall’altro, per contro, li rinsalda.
Garantire infatti l’autenticità delle informazioni condivise, rifeconda legami di fiducia umani, che a loro volta generano comunità.
Sul piano della seconda riflessione, blockchain, per il nostro mercato, del lavoro vuol dire: certezza dei contratti di lavoro, tutela della privacy, incentivo al welfare aziendale.
Gli smart contracts e il nostro ordinamento
Andando con ordine, gli smart contracts sono contratti intelligenti, ovvero pilotati da algoritmi intelligenti in grado di eseguirli automaticamente, senza interferenze esterne. Essi ben si prestano a regolare il rapporto di lavoro con almeno due vantaggi.
Il primo è la certezza e la corretta interpretazione del contratto. Da qui, una drastica riduzione delle liti tra datore di lavoro e lavoratore in ordine a inquadramenti contrattuali, mansioni, differenze retributive, istituti contrattuali di cui non è chiara la titolarità del diritto, eventuali alterazioni dei contenuti degli accordi.
Si tratta di un’innovazione epocale. Nel codice genetico del nostro ordinamento, infatti, è iscritto soltanto il contratto negoziato ed eseguito da due intelligenze umane e non da intelligenze artificiali.
Buona fede, correttezza, affidamento e diligenza media e del buon padre di famiglia sono, ad esempio, clausole generali che gli algoritmi farebbero fatica a declinare nel significato che sino a oggi hanno assunto, con ogni riflesso che ne deriva in termini di configurabilità di adempimento e di inadempimento contrattuale.
Due interrogativi possono chiarine il senso. Se un lavoratore è vittima di un infortunio per aver svolto prestazioni extra lavorative, mosso da uno spirito di diligenza, l’algoritmo intelligente lo registrerebbe tra gli infortuni sul lavoro o tra quelli estranei a esso con i conseguenti differenti regimi di tutela? E ancora, cosa accade se l’algoritmo, grazie al machine learning, e dunque alla capacità di autoapprendimento, a un certo punto, esegue il contratto secondo parametri che deviano da quelli di programmazione perché giudicati migliori?
Il secondo vantaggio degli smart contracts riguarda la lotta al caporalato e, più in generale, al lavoro nero. Gli algoritmi intelligenti, decodificata come lavorativa una prestazione, sarebbero infatti in grado di regolarizzare automaticamente la posizione del lavoratore.
La blockchain sotto il profilo della privacy
Ciò posto, sotto il profilo della tutela della privacy del lavoratore, la blockchain si candida come soluzione alla problematica applicazione dei wearable device (dispositivi indossabili) in azienda. Tali dispositivi captano, infatti, in violazione degli articoli 5 e 6 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) dati sanitari sensibili del lavoratore come: pressione corporea, battito cardiaco, flusso sanguigno che, combinati tra loro dicono, ad esempio stanchezza, emotività, grado di stress e, più in generale, stato di salute di quest’ultimo.
Nell’ordine, l’articolo 5 vieta accertamenti del datore di lavoro “sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente” posta la facoltà del primo di procedere in tal senso attraverso enti pubblici e istituti specializzati di diritto pubblico; l’articolo 6 vieta le “visite personali di controllo sul lavoratore fatti salvi i casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale” e, in tale prospettiva, stabilisce che esse debbano essere “eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro” e a condizione che “siano salvaguardate la dignità e la riservatezza del lavoratore “ e secondo modalità “concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna”[1].
Un sistema blockchain, installato sui wearable device, sarebbe in grado di garantire un trattamento “intelligente” di questi dati sanitari, ovvero nel segno dei principi di correttezza, necessità e pertinenza ma anche dei c.d. principi di privacy by design e di privacy by default , introdotti dal Regolamento Europeo sulla privacy, che fanno da pendant ai primi.
Infine, rispetto alle potenzialità sul piano del welfare aziendale i token, ovvero rappresentazioni virtuali di informazioni, si candidano a sostituire i tradizionali “voucher” messi a disposizione dalle aziende e preordinati alla cura del benessere del lavoratore (palestra, piscina, visite sanitarie e via dicendo). Ad esempio, un lavoratore di un impresa produttrice di beni alimentari potrebbe, attraverso tali token, aver diritto a prestabilite quantità di tali beni. I vantaggi sarebbero almeno tre.
Da un lato, i token potrebbero scontare un trattamento fiscale più leggero di quelli dei tradizionali voucher perché diversi da essi; dall’altro, il lavoratore si assicurerebbe la qualità dei beni di consumo acquistati; dall’altro ancora, l’impresa registrerebbe un aumento di domanda di prodotto proporzionale al proprio numero di dipendenti.
Conclusioni
In definitiva, la blockchain non è solo “criptovaluta” ma una sfida decisiva per il nostro mercato del lavoro. Per coglierla, è sufficiente prendere atto dell’inadeguatezza delle regole dettate dall’intelligenza umana per governare la realtà, che è ora figlia anche di un intelligenza diversa. Quella artificiale.
- In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro. ↑