Sappiamo che gli elementi che rendono ‘legale’ un qualsiasi documento (la cosiddetta notarizzazione), da un contratto a un testamento, tale da farne, ad esempio, una prova valida in giudizio, sono due: il fatto che sia originale o perfettamente conforme all’originale, e che abbia una data certa. Per far sì che il documento abbia questi requisiti si ricorre a figure ed enti a ciò delegati, notai e uffici pubblici (Pra, Catasto…), che se ne fanno garanti verso lo Stato e ogni altro avente interesse; un tema che non riguarda solo il mondo strettamente legale, ma si estende a quello delle certificazioni, dagli attestati di frequenza a corsi, specializzazioni ecc. alla tracciabilità alimentare.
Questo sistema esiste da secoli, ma è chiaro che il suo funzionamento si basa in sostanza sulla fiducia dei contraenti verso il garante. Che i documenti siano di carta o digitali, in cassaforte o dietro un firewall, se c’è volontà da parte di chi ha interesse a farlo di alterare una data, una cifra, una parola, lo può fare. Sarà difficile, ma mai impossibile.
Ciò però non si applica ai documenti registrati su una blockchain. E per due buoni motivi:
- il primo è che la tecnologia è intrinsecamente sicura: ogni blocco di dati legato in una blockchain contiene un identificativo unico, detto hash value o hash code, creato da un processo di crittografia. Se anche un solo bit viene cambiato, la crittografia crea un hash value del tutto diverso e con diversa marcatura temporale. In altre parole: mentre un documento alterato si può sostituire all’originale, una blockchain alterata diventa una blockchain nuova.
- Il secondo motivo non è tecnologico ma di sistema: il concetto di registro distribuito implica che tutti gli attori coinvolti ne sono al contempo fruitori e custodi, a pari diritti e con pari responsabilità. Manca quindi l’interesse individuale, primo incentivo alle falsificazioni. Questo è tanto più vero quanto più numerosi sono gli attori abilitati a validare una modifica per cui, per quanto ciò sembri contrario all’idea di sicurezza, una blockchain pubblica (permissionless) può risultare più adatta alla certificazione di una privata (permissioned), dove la presenza di attori privilegiati ripropone il problema di fiducia nei garanti tipico del sistema notarile tradizionale.
Forza legale con regole chiare
L’impiego della blockchain per la certificazione legale, pur avendo il grande vantaggio di cui s’è detto non è di facile applicazione ai nostri enti pubblici o di pubblico interesse, che ne sarebbero i più logici fruitori. Manca infatti ancora in Italia un quadro normativo con regolamenti attuativi ben definiti, con il risultato di dover talvolta far riferimento in caso di controversie a quanto praticato in altri paesi europei. Un’eccezione è data dall’iniziativa dell’Aci (che peraltro è un ente privato cui lo Stato delega funzioni di pubblico registro) per la notarizzazione dei cambi di proprietà, delle revisioni obbligatorie e altro relative a un veicolo. Uno strumento che andrebbe a sostituire il famigerato “libretto” e che, fornendo una storia sicura del mezzo, aiuterebbe a regolare un mercato ‘selvaggio’ come quello delle auto usate.
Si sta però lavorando: in un intervento durante il convegno di presentazione dei dati 2018 dell’Osservatorio Blockchain & Distibuted Ledger del Politecnico di Milano, Marco Bellezza, consigliere giuridico presso il Ministero per l’Innovazione e Sviluppo Economico, rilevando come la blockchain per la notarizzazione sia tra i temi più attivi per numero di startup e applicazioni sviluppate ha ricordato che da qualche tempo il Mise, tramite un sottogruppo dedicato, “ha articolato una serie d’interventi sulla cornice normativa che, senza voler dare una regolamentazione troppo stringente, col rischio di far danni più che sostenere l’innovazione, assicurano carattere legale ai documenti in tale tecnologia in un giudizio civile o nei confronti della pubblica amministrazione”.
Certificazione e tracciabilità alimentare: la filiera a difesa del made in Italy
Dove le blockchain per la certificazione hanno maggiori prospettive, e dove anche il Mise sta puntando assegnandovi, come detto ancora da Bellezza, una buona quota delle risorse disponibili, è nell’agro-alimentare (paliamo quindi di tracciabilità alimentare), un settore strategico per la nostra economia che nel 2018 ha segnato un export di più di 42 miliardi di euro. Con oltre ottocento prodotti classificati Docg, Dop e Igp, l’Italia è il numero uno dell’agro-alimentare di alta qualità. Fornire ai consumatori, specie se stranieri, una certificazione di filiera che garantisca la rispondenza alla qualità dichiarata attraverso tutti gli stadi della lavorazione, dai campi ai punti vendita, offrirebbe due grandi vantaggi:
- in primo luogo sarebbe un modo efficace di combattere sia i prodotti ‘simil-italiani’ sia le vere e proprie frodi;
- in secondo luogo, cosa forse non ben valutata nelle sue potenzialità, sarebbe un valore capitalizzabile a livello marketing. Lo ha ben capito, ad esempio, la francese Carrefour, ben presente in Italia, che sia in etichetta sia con annunci audio nei propri supermercati pubblicizza la tracciatura dei prodotti ‘bio’, aviari e ortofrutticoli citando esplicitamente l’uso di tecnologie blockchain.
La blockchain nel settore agro-alimentare
Un significativo riconoscimento all’utilità delle tecnologie blockchain nell’ambito della certificazione alimentare e, più in generale, per tutto il tema della tracciabilità alimentare viene dal Rapporto 2018 della FAO, nel quale si legge: “Le tecnologie di contabilità distribuita (DLT) possono aiutare i governi a raggiungere i loro obiettivi di politica pubblica per una crescita economica inclusiva nel settore agricolo, lo sviluppo rurale e la sicurezza alimentare, oltre ad essere un catalizzatore per lo sviluppo sostenibile e il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile…Le organizzazioni incentrate sull’agricoltura dovrebbero continuare a migliorare la propria base di conoscenze e concettualizzare l’assistenza tecnica necessaria per preparare e sostenere gli attori agricoli e i governi a svolgere un ruolo attivo nelle catene del valore agricole abilitate alla blockchain”. Le tecnologie blockchain potrebbero quindi essere un valido supporto per essere conformi alla normativa sulla tracciabilità alimentare (Regolamento 178/2002), ma soprattutto, come abbiamo scritto, per difendere dalle frodi un importante segmento della nostra economia.
L’Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano ha rilevato un crescente interesse per le applicazioni basate su blockchain nell’ambito della tracciatura e certificazione alimentare: 42 progetti internazionali e italiani mappati dal 2016 al 2018, più che raddoppiati nell’ultimo anno; nel 21% dei casi si tratta di progetti legati alla filiera della carne, nel 17% all’ortofrutta, nel 10% al cerealicolo e nel 24% a diversi segmenti; nel 50% dei casi un ruolo determinate è stato assunto dagli attori della distribuzione e della trasformazione.
Riguardo l’Italia, la concorrenza straniera e l’elevato valore aggiunto generato dalla filiera rendono il settore viti-vinicolo molto sensibile alla certificazione su blockchain. Le prime case ad averla adottata (Chiarlo, Ricci Curbastro, Ruffino e Torrevento) hanno scelto My Story, proposta dalla società di certificazione DNV GL e basata sulla blockchain pubblica VeChain Thor, ma ora c’è anche una soluzione italiana, sviluppata da EY Italia in collaborazione con la startup EZ Lab e la Cantina Volpone. Ancora EY ha fatto per la veneta Bofrost la prima soluzione per la filiera del freddo, con tecnologia EY OpsChain su blockchain Ethereum, mentre Barilla con un progetto sviluppato con IBM e che ha vinto il Blockchain Award indetto da Forbes, certifica qualità e provenienza delle materie prime impiegate, a partire dal pregiato basilico italiano.
C’è comunque ancora molto da fare. Soprattutto le piccole imprese latitano, anche perché, va detto, inserire un’innovazione dirompente in organizzazioni e processi consolidati non è facile e spesso necessita di un aiuto consulenziale. Fatto sta che una ricerca sulle oltre 130 soluzioni di tracciatura disponibili per i nostri operatori agro-alimentari mostra come si tratti in genere di processi a bassa tecnologia. Per quasi il 60% sono semplici piattaforme software che richiedono un intervento umano per immettere e trattare i dati e per il 30% si basano sul classico lettore di codice a barre. Le soluzioni più avanzate (tipo lettori Rfid, sensori IoT e Qr-code) sono ancora una rarità.