Sarà la blockchain a salvare la sharing economy?

Se fino a oggi si è creata una oligarchia di monopoli, dominata da alcuni giganti Usa e asiatici, è possibile immaginare una versione 2.0 in cui il potere non si concentri nelle piattaforme ma resti distribuito: grazie alla blockchain e agli smart contract

Pubblicato il 30 Mag 2018

tokenizzazione

Se la sharing economy ha fallito creando una oligarchia di monopoli che assomiglia sempre più a una dittatura alla 1984 che ci controlla e influenza da vicino, è possibile invece immaginare una Sharing Economy 2.0 in cui il potere non si concentri nelle piattaforme ma resti distribuito e, di conseguenza, impalpabile, nelle mani di chi fornisce i servizi e di chi vi accede? La risposta è sì e la parola chiave è “distribuzione”, ovvero tramite “applicazioni distribuite”, in contrapposizione a “concentrazione”, ovvero piattaforme applicative nelle mani di un unico soggetto. In poche parole usando la Blockchain, nelle sue incarnazioni, come Ethereum, Eos o Neo, che consentono di implementare Smart Contract e dare vita ad applicazioni distribuite, le cosiddette dApps.

Uber, Airbnb, Facebook e tutti gli altri, se messi insieme, valgono più del PIL di una nazione, eppure hanno fallito. Il sogno che Internet e poi la condivisione di beni e servizi potessero rendere più democratico il mondo si è infranto contro la concentrazione nelle mani di pochi di tutto il potere.

Il Famga (Facebook, Apple, Microsoft, Google e Amazon) e il Bat (Baidu, Alibaba e Tencent) nel loro complesso hanno la quasi totale proprietà dei dati degli utenti e grazie a questi riescono a proporre servizi e prodotti che oscurano le disponibilità altrui. Gli oligarchi del Web agiscono come rapaci ogni qualvolta sul mercato si affacci qualche nuovo interprete che acquisisca velocemente utenti, e con i essi i loro dati, comprandolo a qualunque prezzo: si veda Instagram, Whatsapp e Nest. E quando l’operazione non gli riesce, cercando di ammazzarlo nella culla copiando pedissequamente ogni mossa dell’avversario, basta chiedere in questo caso a SnapChat.

Eppure Internet era nata dall’idea che la connessione su scala globale di tutti i servizi digitali ci avrebbe reso liberi dalle schiavitù del passato. Il sapere celato nelle biblioteche di tutto il mondo si sarebbe disvelato e l’agricoltore di Pachino avrebbe potuto vendere i suoi pomodori al russo di Novosibirsk. Non era una semplice utopia ma il dispiegamento sul campo delle legge di Metcalfe, che insieme alla legge di Moore, quella secondo cui la potenza dei processori raddoppia ogni 18 mesi, ha governato l’esplosione digitale dagli anni ’80 in avanti. Enunciata da Bob Metcalfe, l’inventore di Ethernet e fondatore di 3Com, la legge che porta il suo nome sostiene che l’effetto di una rete è proporzionale al quadrato degli utenti connessi, ovvero che al crescere della dimensione, il valore di una rete cresce geometricamente. Pur mancando la dimostrazione teorica, quella pratica è rappresentata da tutta la shared economy. Quel che Metcalfe non poteva prevedere è che un network, quando acquisisce una certa massa critica, si trasforma in monopolio a causa dell’inerzia dei suoi partecipanti. Spendendo tempo facendo ricerche e spedendo molte email, sarebbe possibile trovare una camera in affitto a Berlino, ma è molto più facile rivolgersi ad AirBnb e con pochi click prenotare.

Se da un lato la shared economy è un successo tangibile per i consumatori, dall’altro mostra crepe visibili sul fronte dei fornitori. Quando Uber ha abbassato le commissioni per i propri guidatori, questi non hanno potuto fare altro che accettare e così sarebbero costretti a fare gli host di AirBnb se la piattaforma decidesse di aumentare le proprie commissioni.

Ma anche i consumatori che hanno contribuito a costruire il network e hanno regalato il potere alla piattaforma, spesso sono penalizzati, per esempio quando un servizio da gratuito viene trasformato a pagamento o quando si fa un uso improprio, ancorché dichiarato, dei propri dati. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è stato per molto tempo sottovalutato, finché non è esploso il caso Cambridge Analytica. Solo allora una parte dell’opinione pubblica si è resa conto che ciò che era nato per ottimizzare gli investimenti pubblicitari, poteva essere usato per influenzare l’esito delle elezioni in paesi liberi. Nel passato la comunicazione politica, principalmente tramite affissioni e TV, non poteva essere che generalista, con messaggi semplici e tutto sommato pacati. Ora, potendo conoscere nel dettaglio ogni singola persona è possibile montare campagne di (dis)informazione, facenti uso di fake news, che colpiscono con successo target molto ristretti senza incorrere in alcun effetto collaterale presso altri potenziali elettori. Per esempio un elettore contrario ai vaccini ma a favore dell’integrazione riceverà solamente messaggi NoVax e i post razzisti gli saranno del tutto preclusi.

Ma passiamo a un esempio concreto di sarin econonomy 2.0 basato sulla blockchain: potrebbe presto esistere una nuova entità, probabilmente sostenuta al lancio da una Ico, che metta a disposizione un sistema, basato su Blockchain, del tutto analogo, in termini di funzionalità, ad AirBnb. Chi volesse affittare la propria casa dovrebbe registrarsi e poi inserire i dati dell’alloggio e le foto. Per semplicità diciamo che sarebbero generati due Smart Contract nella Blockchain, uno relativo alla persona e l’altro all’alloggio, in relazione tra di loro. La prima differenza è che i dati non sarebbero mantenuti in un database centrale ma sarebbero “distribuiti” nella Blockchain e sarebbero di proprietà di chi li ha inseriti. Quando un utente deciderà di affittare l’appartamento non dovrà far altro che prenotare inviando i soldi allo Smart Contract che rappresenta l’alloggio. Questo modificherà il suo stato e impedirà che altri possano prenotare per lo stesso periodo. Il proprietario dell’alloggio potrà trasferire i fondi sul proprio conto e convertirli in altre cryptovalute o in denaro sonante usando uno dei tanti exchange disponibili. Il tutto avviene senza pagare commissioni, più o meno nascoste, ma remunerando con “gas”, modeste quantità di cryptovaluta, i sistemi che tengono in vita la blockchain facendo mining.

I vantaggi, oltre che in termini di costi e di proprietà dei dati, si hanno dal disaccoppiamento tra chi distribuisce e chi eroga il servizio. Tornando all’esempio di AirBnb, in questo momento se un proprietario vuole distribuire il proprio appartamento su più piattaforme deve registrarsi più volte, copiare più volte descrizioni e foto e soprattutto gestire eventuali doppie prenotazioni. Ipotizzando invece di impiegare una dApp, il proprietario farebbe un’unica registrazione e sarebbero poi AirBnb, Tripadvisor e gli altri ad accedere ai suoi dati, impedendo intrinsecamente doppie prenotazioni.

L’altro vantaggio e che potrebbero moltiplicarsi i distributori, poiché la soglia di ingresso non sarebbe più l’aver messo in piedi un sistema software complicato e aver raccolto una moltitudine di utenti, ma semplicemente aggregare una audience, anche piccola. Oggi, se il Comune di Milano volesse rendere disponibile nel proprio sito d’informazione turistica l’offerta di alloggi locali, avrebbe di fronte due scelte: implementare da sé un sistema di booking con costi elevati oppure fare un accordo con AirBnb, con scorno dei concorrenti, per incorporare la sua offerta sulla piazza di Milano. Un domani, quando esistesse la dApp per gli alloggi, non dovrebbe far altro che estrarre dalla Blockchain le disponibilità di alloggi per Milano e mostrarle sul proprio sito, fornendo un servizio a turisti e cittadini, senza alcun costo significativo.

Analogamente si potrebbe immaginare un social network in cui i dati degli utenti e le loro relazioni fossero registrati in Smart Contract: improvvisamente nascerebbero migliaia di applicazioni in grado di farci sfruttare il nostro network in modi diversi, per esempio consentendoci, come utenti, di avere un unico profilo e un’unica rete condivisa tra Facebook e Linkedin. Ogni applicazione estrarrebbe dal nostro network le informazioni rilevanti e ce le mostrerebbe, senza in alcun modo appropriarsene ed usandole a proprio vantaggio.

Inoltre, usando una Blockchain, è possibile implementare meccanismi di garanzia “Zero-Knowledge”, ovvero garantire un attore del sistema che una certa affermazione è vera, senza rivelare altro. Per esempio si può garantire l’età di un partecipante o la sua affidabilità, senza mostrare la sua carta di identità o il dettaglio di tutte le recensioni ricevute.

Ma chi mette a disposizione una dApp usata da milioni di utilizzatori e fornitori di servizi, alla fine, non avrà concentrato in sé lo stesso potere che oggi hanno le piattaforme della sharing economy?

No, perché la proprietà dei dati e l’accesso agli stessi è di chi li fornisce, ovvero chi eroga servizi o chi li compra, e non di chi ha fornito il sistema. E’ la stessa differenza che passa tra Microsoft, che vende Outlook ed Exchange alle aziende per costruirsi un sistema di posta elettronica privata a cui accedono solo i dipendenti, e Google, che regala a tutti la posta elettronica, salvo poi leggere i contenuti dei messaggi per proporre delle pubblicità il cui prezzo pagato dagli inserzionisti serve a sostenere la gratuità del servizio. Un do ut des per nulla chiaro agli utenti che sfocia poi in disastri come appunto quello di Cambridge Analytica.

La strada della evoluzione tecnologia è lastricata di buone intenzioni trasformatesi in monopoli e cattive abitudini che poi vengono spesso sostituite da nuovi interpreti. Microsoft coniò il motto “Un Computer su ogni scrivania e in ogni casa”, ma poi subì sanzioni dall’antitrust e arrivò Google che nasceva sulle ali di “No Evil”. La storia sembra ripetersi ed è ora nelle mani dei nuovi imprenditori della Blockchain Economy correggere gli errori del passato senza incorrere in nuovi.

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