L’approccio cloud-native abilitato dalle soluzioni container è una realtà destinata a consolidarsi. Le aziende che stanno affrontando il processo di trasformazione digitale non possono, infatti, prescindere da una tecnologia e da un modello di distribuzione dei servizi IT divenuti ormai essenziali sia per sostenere lo sviluppo del business nel contesto della app economy, sia per garantire a clienti e dipendenti user experience appaganti e sicure lungo processi sempre più integrati, efficienti e fluidi.
“Questi sono i benefici attesi ed è chiaro che, per molte organizzazioni, riuscire a dare vita a un ecosistema che permetta di raggiungere obiettivi del genere rappresenti ancora una vera sfida. Ma una cosa è certa: il cloud-native è tutto fuorché una moda o una delle tante buzzword che imperversano nel mondo tecnologico in questi anni. È piuttosto una dimensione riconosciuta, rispetto alla quale – stando anche a cosa dicono le survey condotte da IDC – gran parte delle imprese ha sviluppato una certa sensibilità, o meglio la consapevolezza che abbracciare questo trend implica maggiore efficienza, riduzione dei costi, portabilità delle applicazioni, consistenza e standardizzazione dei processi”. A parlare è Paolo Salvatore, Cto di Sinthera, system integrator che fa capo alla galassia Gruppo Project.
Una dimensione che va oltre il tema tecnologico
Salvatore ci tiene, però, a chiarire che non si tratta di un tema puramente tecnologico. “Bisogna definire bene il contesto nella sua complessità prima di approfondire il concetto di cloud-native. Non parliamo, infatti, soltanto di un nuovo modello di ideazione e di programmazione delle applicazioni, ma letteralmente di un altro modo di scrivere e gestire lo sviluppo e l’intero ciclo di vita del software aziendale”.
Questo significa che è necessario, prima di ogni altra cosa, comprendere il modo in cui determinati requisiti di business debbano (e possano) essere tradotti in requisiti funzionali, così come dovranno essere coinvolti gli stakeholder, individuando tra gli interlocutori non solo gli owner dei processi, ma anche gli utilizzatori finali. “Il workflow viene avviato, codificato, testato, distribuito e migliorato continuamente grazie al feedback che le varie categorie di utenti condividono con gli sviluppatori” precisa Salvatore. “Per sfruttare al massimo potenziale le tecnologie cloud-native in ottica user-centered, occorre avvalersi di architetture a microservizi, piattaforme di orchestrazione dei container e pratiche devops. Esistono naturalmente delle linee guida, ma non sono valide per tutte le organizzazioni: ciascuna azienda deve maturare i propri processi peculiari, verificando sul campo cosa funziona e cosa no. Il nostro ruolo è, d’altra parte, quello di portare a conoscenza dei clienti esperienze di approcci che funzionano, per poi customizzare le procedure in funzione delle specifiche esigenze dell’impresa”.
Questa è in effetti una premessa valida per introdurre qualsiasi progetto di trasformazione digitale che punti a modellare i processi esistenti o a reingegnerizzarli con la finalità di automatizzare – parzialmente o del tutto – le procedure, rendendole veloci, efficienti, controllabili, facilmente gestibili dal punto di vista operativo e, in ultima analisi, cost effective per la realtà aziendale presa in considerazione.
L’approccio di Gruppo Project alle piattaforme cloud-native
Assumendo questa prospettiva, Sinthera, che dal 2021 fa parte di Gruppo Project, ha dato vita a una serie di business management suite sviluppate in ambienti open source: soluzioni in grado di abilitare piattaforme cloud-native che traggono vantaggio da infrastrutture residenti nella nuvola e da framework di nuova generazione a supporto dello sviluppo agile e dell’approccio devops. “Tutto si riverbera in tool che si integrano sulle piattaforme cloud-native in base a quanto emerso durante i cicli di assessment, essenziali per verificare il livello di readiness dell’organizzazione e delle applicazioni che utilizza” spiega Salvatore.
“Qual è il beneficio che ci si aspetta dall’intervento in termini di risultati operativi e di business? A quali necessità deve andare incontro, e con quali priorità va eseguito? Sono queste le domande a cui cerchiamo di rispondere nel momento in cui analizziamo i processi e le applicazioni all’interno del loro scenario di business, e da cui determiniamo strategie di migrazione e design ad hoc”.
Un mercato che si muove a diverse velocità
I primi player a muoversi su questo fronte sono stati gli istituti bancari e gli assicuratori, seguendo il preciso intento di sviluppare applicativi che coniugassero una customer experience appagante e rilasci rapidi, con la possibilità di inserire upgrade con una certa frequenza – ogni due-tre settimane – e rimediare a eventuali errori di deployment molto velocemente. “Le prime esperienze sono maturate nell’ambito del Finance – conferma Salvatore – e da lì si è poi passati agli ambiti più disparati, con particolare riferimento all’agroalimentare e al retail.
Attualmente è il settore industriale quello che sta esplorando l’approccio cloud-native per integrare a livello profondo le supply chain e abilitare modelli di business innovativi, basati per esempio sulla manutenzione predittiva e sulla servitizzazione. È bene precisare che parliamo di vision che tipicamente non arrivano dall’IT, ma dai reparti che in azienda si occupano di ricerca e sviluppo: l’obiettivo è quello di arricchire l’offerta con servizi software innovativi, che aggiungano intelligenza a bordo delle macchine e che mettano a disposizione dei clienti finali dati e insight di valore per ottimizzare l’utilizzo dei prodotti”.
In realtà, è la spinta all’innovazione quella che motiva le aziende più intraprendenti a ricorrere alla logica cloud-native. “Se nell’ambito Finance & Insurance la strada è già tracciata, e per questo più chiara, non possiamo non tenere conto del fatto che in Italia, anche a seconda dei settori, le aziende si muovono a velocità diverse, e c’è ancora chi non ha capito come valorizzare la tecnologia container. Il vertical di appartenenza aiuta non poco: spesso, infatti, sono i fornitori o i clienti B2B a imporre il cambiamento, e al top management non resta che prendere o lasciare”, dice Emilio Mazzucconi, Presales Director di Project Informatica.
“In questo momento credo che molti si stiano ancora guardando intorno per capire come sfruttare l’approccio nell’ottica non più solo di migliorare processi aziendali e business, ma anche di tenere il passo con le nuove esigenze di mercato, sia in termini di rapidità di esecuzione, sia sul piano della resa del parco applicativo in funzione del time-to-market” conclude.
Il ruolo del system integrator
Per cavalcare l’onda dell’innovazione guidata dal software occorre, dunque, una forte sponsorship ai piani alti dell’azienda. “E questo non è affatto scontato” avverte Salvatore. “Oltretutto, è necessario che chi detiene l’ownership dei processi di business lavori al fianco di chi mette in atto la trasformazione. Figure tecniche e profili manageriali devono condividere una serie di strumenti per avere la stessa rappresentazione del modello di business e modellizzare use case e procedure coerenti.
A questo si aggiunge un’ulteriore sfida, quella delle competenze. C’è, in generale, un evidente gap tecnico all’interno delle aziende. System integrator come Gruppo Project esistono proprio per seguire i clienti nelle fasi di analisi e deployment, ma anche per guidarli nell’esercizio delle piattaforme e per fornire, almeno inizialmente o fino a quando il team interno non è autosufficiente, le skill necessarie all’orchestrazione dei container. Del resto, anche nell’ottica di garantire la portabilità delle applicazioni in ambito hybrid e multi-cloud, vincerà chi sarà in grado di gestire correttamente il deployment in scenari cross-platform, indirizzando come un coreografo lo sviluppo, il testing e il passaggio dei workflow da un livello all’altro”.