È una mattina come tante altre, lavorate in una grande città metropolitana e da qualche tempo avete deciso di muovervi con i mezzi pubblici. Magari spinti da un vago, malinteso senso di responsabilità ambientale, fatti due conti – si sa che con i tempi che corrono l’aritmetica spiccia è tornata sulla cresta dell’onda – vi siete convinti a lasciare la macchina nel box senza rendervi conto che così facendo vi state nel contempo regalando un’occasione unica per immergervi nel fantastico mondo della psicosociologia dilettantesca.
Vi avviso subito, è roba da guardoni 2.0, a rischio di qualche occhiataccia o peggio di una maledizione densa e colorita sibilata a denti stretti nei minuti di limbo – per fortuna non sempre pochi – tra la stazione di partenza e quella di destinazione. Ma ne vale la pena, ve lo assicuro. Provare per credere.
Occhio spento, viso di cemento
Si parte. Entrati in autobus non fate i soliti pigroni a caccia del sedile accanto al finestrino, piazzatevi piuttosto in piedi, al centro e iniziate semplicemente, implacabilmente a osservare e registrare quello che vedete. Ripetuto l’esperimento una serie di mattine a piacere scoprirete che la scena si presenta desolatamente simile ogni giorno, con una stragrande maggioranza di passeggeri d’ogni età, tutti accumunati non solo dal celeberrimo ‘occhio spento e viso di cemento’ ma da un gingillo tra le mani – comunemente identificato come qualcosa di smart indipendentemente dalle dimensioni della tavoletta hi-tech – che consuma la propria batteria a movimentare lo schermo o di giochini troppo idioti per essere veri o di un flusso ininterrotto di eventi social multimediali. Tanto più sarete ficcanaso tanto più scoprirete che la stragrande maggioranza di questi ‘contenuti’ sono drammaticamente vuoti, preconfezionati da qualcun altro, per nulla interattivi se non nella misura in cui ci si limiti a saltare dall’uno all’altro o a seguire percorsi rigidamente, sottilmente predeterminati. Prevedibili, rassicuranti, semplicissimi, questi ‘contenuti’ ammaliano al punto tale che spesso la scena s’interrompe bruscamente con un precipitarsi goffo del malcapitato fruitore alla fermata successiva di quella prevista.
Caro il mio voyeur digitale, e che male ci sarebbe in tutto questo!? Basta libri pesanti, giornali poco maneggevoli o peggio tempo ‘sprecato’ a non fare nulla! È la “modernità”. Ma siamo sicuri?
Ammaestrati alla semplificazione, immersi in un mondo digitale rigidamente modellato da altri, come possiamo sperare di intuire la realtà, ben complessa e niente affatto disposta a farsi ‘fruire’ come un post qualunque? E più si scava, più la questione s’ingarbuglia…
Modelli che creano la realtà anziché descriverla
Negli anni che vanno dal 1973 al 1975 nel mercato dei titoli finanziari si sperimentò un modello predittivo dei prezzi delle opzioni sulle azioni noto come Bsm dalle iniziali dei tre ideatori, Fischer Black, Myron Scholes e Robert C. Merton. Nato dal fraintendimento di una teoria fisico-matematica ideata da Brown, botanico scozzese di fine ‘800, per la descrizione di quella classe di fenomeni fisici caratterizzati dal moto fluttuante, repentino e casuale di un insieme di particelle disperse in un fluido (Brown la postulò osservando al microscopio i movimenti dei granelli di polline sospesi in una soluzione acquosa), l’applicazione del Bsm e delle sue innumerevoli varianti ha avuto un impatto enorme – e devastante – nella scellerata gestione del rischio d’investimento degli ultimi trent’anni.
Come ben documenta Donald Mackenzie, professore di sociologia presso l’università di Edimburgo, nel suo “An engine, not a camera. How financial model shape markets”, nei primi due anni di applicazione il Bsm forniva predizioni errate del 30-40%, in altri termini un non-modello. Poi, misteriosamente e senza che al modello fosse apportata alcuna variazione significativa, dall’estate del 1976 e nei due anni seguenti il modello ridusse l’errore di 20 volte, arrivando a prevedere il valore dei prezzi con uno scarto del 2%. Cos’era successo? Quella che venne definita come “la teoria di maggior successo che si sia mai avuta non solo nella finanza, ma nell’insieme della scienza economica” aveva in realtà messo in moto un fenomeno che Michel Callon, professore di sociologia presso l’École des mines di Parigi, ha descritto come ‘performatività’ ossia quel fenomeno per il quale una teoria anziché descrivere un fenomeno lo determina, configurandolo a sua immagine. In altre parole il clamoroso successo e la strepitosa accuratezza non era affatto determinata dalla bontà della teoria (come infatti dimostrano gli scarsi risultati degli anni precedenti), ma da un ben preciso atteggiamento dei traders che anziché usare il modello a posteriori per verificarne l’affidabilità lo usavano a priori per determinare la propria strategia d’investimento. Applicato su larga scala tutti gli attori coinvolti si comportavano in modo uniforme e dunque prevedibile. In pratica non era la teoria a prevedere i prezzi ma erano i trader che, credendola vera, l’avevano di fatto resa vera.
In ultima analisi il modello non aveva descritto la realtà: l’aveva creata.
Performatività e informatica
Torniamo sull’autobus da cui siamo partiti. Quello che ho descritto è il risultato reale del medesimo principio di performatività applicato però questa volta all’informatica consumer. L’esperienza digitale così come la stiamo vivendo non è altro che il risultato dell’adozione acritica di modelli sociali che, assunti come veri dagli utilizzatori, li hanno di fatto resi veri nonostante la realtà. Il principio ovviamente è ben noto a chi si occupa di marketing e vendite, per non parlare poi di chi ha interessi e mezzi per ‘indurre’ un comportamento per lui vantaggioso.
L’aspetto che però più m’interessa sottolineare è il ruolo che l’informatica nel suo complesso sta giocando nel processo di creazione di modelli che divengono reali a discapito della realtà. Se infatti occupare la durata del tragitto giornaliero di un pendolare con distrazioni prive di contenuti può sembrare semplicemente fatuo, in realtà è la piattaforma in sé a produrre il maggior numero di effetti collaterali indesiderati. Ridurre una relazione amicale tra esseri umani a un mix onnipresente, in tempo reale e multimediale di like, post, tag, hash banalizza e ipersemplifica non solo la complessità della relazione in sé, ma soprattutto porta invariabilmente chi ne fa uso a preferire il semplice-digitale al complesso-reale. Il passaggio performativo è a quel punto a portata di mano, modificando le relazioni reali fino a farle coincidere con quelle digitali (un fenomeno già macroevidente e fonte di dibattito tra sociologi, antropologi ed esperti del mondo digitale).
Senza entrare nel merito, pur assai interessante, della discutibile origine dei modelli digitali che vanno per la maggiore, anche nel mondo dell’informatica enterprise gli effetti non tardano a farsi sentire. Tra i tanti ambiti, quello che forse può portare ai fraintendimenti più clamorosi è quello delle applicazioni basate sui big data. La concomitanza di enormi volumi di dati, modelli e metriche eterogenee e stratificate la cui conoscenza viene sistematicamente messa in secondo piano rispetto al ‘vantaggio’ della semplicità e dell’accessibilità, la mitologia dell’aggiornamento in tempo reale, rappresentano un mix largamente al di fuori della capacità di reale comprensione da parte della stragrande maggioranza degli utenti a cui queste applicazioni sono destinate. Esattamente come già accaduto per la gestione del rischio finanziario, la creazione di strumenti ipersemplificati crea unicamente l’illusione di poter comprendere (o peggio dominare) a sforzi (e costi) irrisori un livello di complessità semplicemente troppo elevato per poter essere così banalizzato. Se poi l’adozione è su larga, larghissima scala (ed è qui che l’informatica gioca un ruolo chiave) il concretissimo rischio performativo rischia di ripetersi ancora una volta, creando una realtà irreale che alla lunga farà pagare l’errore a caro prezzo. Valutazione del rischio dei mutui subprime docet, laddove gli algoritmi di valutazione del rischio di default non hanno minimamente saputo predire il collasso ma solo constatarlo ex-post.
Prima che il telefono diventi definitivamente più smart di chi lo ricarica, sarà il caso di correre ai ripari. L’antidoto a questa intossicazione naturalmente c’è e c’è sempre stato. Basta smettere di nutrirsi di semplicità a buon mercato tornando alla buona, vecchia, ostica complessità, trattandola per quella che è, con gli strumenti adeguati, con i tempi del caso e senza illudersi di comprendere senza sforzo dinamiche che nemmeno si riescono a descrivere a parole.
In fondo è più semplice di quello che si possa pensare, basta tenere ben presente quello che ebbe a dire un brillante fisico del secolo scorso: “Tutti i problemi complessi hanno sempre una soluzione semplice, elegante e sbagliata”.
*Simone Bosetti è Head of It e Operations, April Italia