I partecipanti alla tavola rotonda virtuale Ambidextrous Thinking: the Interplay between Analysis and Intuition, organizzata dall’Osservatorio Design Thinking for Business del Politecnico di Milano, in occasione della presentazione del report 2020, sono stati chiamati ad esprimersi sui risultati di un sondaggio proposto agli iscritti al convegno. Le due opzioni fra cui scegliere erano se l’intelligenza artificiale possa essere utile soprattutto per un supporto di analisi in profondità dei bisogni e desideri dei degli utenti o se piuttosto, associando in modo originale i fenomeni apparentemente non correlati, favorisca intuizioni e stimoli per la creazione di nuove idee, risposta che ha raccolto circa l’80% dei consensi
I relatori, commentando le preferenze dei colleghi, hanno confermato la necessità di un approccio duale, dove l’analisi sia di stimolo all’intuizione, che resta una componete fondamentale del Design Thinking (DT).
Secondo Veronica Borghi, Innovation Manager Artsana Group, si assisterà a una sfida a due, dove il DT, sempre più diffuso nelle aziende italiane, e AI dovranno andare a braccetto. “Il valore maggiore offerto dall’AI sarà rendere più facile la vita per i designer, grazie alla capacità di semplificare la complessità delle informazioni digitali, di velocizzare l’analisi e la clusterizzazione, regalandoci quindi tempo per convogliare l’energia dei designer verso attività più creative e interessanti”, sostiene, precisando che DT che deve capire quali problemi valga la pena risolvere e le domande da porre all’AI. “L’intelligenza umana deve avere visioni e progettare un futuro interessante e desiderato da tutti, oltre a essere abilitatore per nuovi modelli business”.
Monica Gabrielli, Head of Digital Experience, Sogei, dove il design thinking viene utilizzato per ripensare e riprogettare i servizi pubblici, è convinta che i designer sapranno utilizzare al meglio l’AI, non solo per automatizzare il processo ma per rendere più efficace il design e accelerare i tempi di progettazione. “L’AI ci aiuterà ad aumentare il livello di creatività e sarà fondamentale per supportarci nel generare nuove intuizioni”, sostiene.
Marzia Battaglia, service design lead, Assist Digital, evidenzia la possibilità di un uso differente dell’AI nelle diverse fasi del DT. “Nella fase di discovery, l’AI può fungere da abilitatore per supportare analisi di dati anche complessi – dice – Tuttavia l’AI non può dirci i perché, legati a bisogni e decisioni”. Di conseguenza l’analisi quantitativa va integrata con la ricerca qualitativa, empatica verso gli utenti.
Quando il progetto è avviato, secondo l’esperienza di Battaglia, l’AI può supportare l’analisi comportamentale per migliorare il prodotto/servizio, tanto più efficace quanto più vengono utilizzati.
Petra Seppi, Head of Unit Innovation Management, NOI Techpark, a partire dall’esperienza del servizio “Product Innovation in 5 Steps”, basato sulla metodologia DT, fa invece una distinzione basata sul tipo di innovazione. “Abbiamo sperimentato che più un’impresa è disposta a incoraggiare le idee pazze ed è aperta a un’innovazione dirompente, tanto più è importante l’approccio etnografico, basato sull’osservazione sul campo e su interviste in modo empatico”. In questo caso dati e algoritmi aiutano ma svolgono un ruolo secondario, mentre l’analisi intelligente dei dati risulta di primaria importanza, in caso di innovazione incrementale.
Collaborazione fra più figure o un designer più tecnologico?
Secondo Emma Bove, Manager Coe Human Capital & change management di Bip, per cogliere i vantaggi sia sia dell’analisi sia dell’intuizione, è necessario coinvolgere universi di conoscenza e competenza differenti nella progettazione e nell’uso di tool di AI. “È importante fondere approcci e visioni di analisi di big data con il mindset tipico degli esploratori di micro-trend, proprio dei ricercatori sul campo più abituati a cogliere segnali deboli e bisogni latenti”.
Anche Alessandro Confalonieri, Head of service design, Doing, data per scontata la necessità di cultura design driven per ottenere un vero beneficio da un progetto, ritiene indispensabile favorire la collaborazione fra persone. “Per realizzare un progetto che risponda ai requisiti di business dobbiamo costruire il reciproco scambio fra persone con competenze differenti; uno scambio che può solo rafforzare la customer experience”. In sintesi, l’AI può aiutare a generare ed esplodere le idee, grazie al mix fra due culture, senza che i designer diventino matematici.
Si tratta però di capire quale backround comune sia in grado di far dialogare culture diverse, domanda lanciata da Zurlo che resta ancora senza risposta.
L’impegno del designer per una tecnologia amica delle persone
Marco Giglio, Managing director design, BCG Platinion, esprime per tutti un dubbio latente, ossia se l’AI potrà mai sostituirsi ai designer, nella fase creativa, nella creazione degli insight. “Il modo i cui i dati possono entrare in relazione fra loro per la soluzione di un problema è qualcosa che il designer si porta dentro, una lente attraverso cui legge le informazioni – sostiene – Certo l’AI può fornire informazioni e dati più ricchi in termini quantitativi e qualitativi ma l’intuizione che li mette in correlazione resta al di fuori della portata della tecnologia”. Sarà responsabilità del designer quando si troverà al bivio, scegliere fra un’innovazione che porta a un futuro più desiderabile e rispetto ad un’altra. C’è ad esempio chi ritiene che l’AI disintermedierà sempre più e che masse di persone diventeranno inutili anche come consumatori con cui i brand non avranno più relazioni dirette essendo un consumatore sostituibile con un altro più facilmente accessibile. “Sta a noi scegliere il tipo e l’uso della tecnologia e dell’AI – sottolinea Giglio– Scegliere una tecnologia che libera e da potere alle capacità umane come intuizione, empatia, capacità di decidere e restituisce ad ogni persone un ruolo”. E dunque la nuova sfida dei designer è offrire innovazione rilevante per le persone e per la società.
Sul tema della disintermediazione ritorna nel suo intervento Seppi, in un’ottica concreta di personalizzazione, ricordando che, passando dalla fase del problem framing a quella del problem solving, entra in gioco il principio di interazione. I digital giant riescono, ad esempio, a perfezionare l’interazione in modo completamente automatizzato, grazie all’AI, per portare a compimento l’offerta giusta in ogni fase. “Ma questi casi, sempre portati ad esempio, come possono essere utilizzati da una tipica industria italiana (agroalimentare, moda, mobile…)?- si chiede – La personalizzazione del prodotto anche fisico non è più utopia; nella nostra esperienza robot collaborativi interagiscono con l’uomo e portano al perfezionamento prodotti anche fisici”.
NOI Techpark sta anche sperimentando su prodotti individualizzati con il servizio Product innovation in 5 steps, per esaminare l’utilità in abbinamento di analisi quantitativa e qualitativa nella fase di problem framing, per aumentare la conoscenza sui bisogni delle persone.
Un’attività fondamentale anche per Gabrielli è scoprire associazioni fra quanto è emerso in fase di emphasize e quanto invece accade in fase di erogazione del servizio. “Il confronto fra dati raccolti in fase di design e quello che accade in fase di erogazione del servizio sarà fondamentale da analizzare”.
“Da designer vorrei sottolineare – conclude Zurlo – che i designer partono dai dati ma c’è sempre una dimensione del futuro. Forese è eccessivo considerarlo il nuovo profeta, ma può certo essere visto come interprete di alcuni segnali deboli che emergono dalla società o dalla cultura. I designer sanno osservare, sono attenti al contesto”.
Capacità queste che difficilmente l’AI potrà sostituire.