Nella Survey realizzata lo scorso anno dagli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano, la governance dei processi di innovazione digitale era emersa come la principale preoccupazione, e priorità da affrontare, tra i Cio coinvolti. “La Survey di quest’anno – spiega Alessandra Luksch, Direttore della Digital Transformation Academy – è partita proprio da questo dato per cercare di capire cosa significa fare innovazione digitale per le aziende, come concretamente stanno affrontando questa priorità e quali sono le fonti di innovazione alle quali attingono”.
Who's Who
Alessandra Luksch
Nell’articolo Percorsi, modelli e competenze di un dipartimento IT sempre più “liquido” e innovatore abbiamo visto quali sono i modelli organizzativi verso i quali le imprese, e in particolare le Direzioni IT, si stanno orientando per introdurre l’innovazione in azienda, in questo servizio ci focalizziamo invece su cosa significa concretamente fare Open Innovation: “Prima di tutto – precisa Luksch – mi preme sottolineare che l’innovazione, per essere tale, deve essere pervasiva in tutta l’azienda. Sarebbe un errore vederla limitata a un solo aspetto o a poche aree. Bisogna fare dell’innovazione una prassi di lavoro e questo significa [si veda anche l’articolo già citato, ndr] diffondere la cultura dell’innovazione in tutta l’azienda, la cultura dell’errore e della sua rapida correzione (fail fast to learn faster), la cultura di un approccio imprenditoriale ai processi aziendali da parte di tutti [dove ogni soggetto si deve assumere la responsabilità di avere un approcio innovativo in qualunque sua attività/processo, proprio come se l’azienda fosse sua ndr]”. In definitiva, utilizzando un slogan chiediamo: “Si potrebbe dire l’innovazione sei tu?” “Esatto – risponde Luksch – deve essere un approccio mentale intrinseco a ciascuno di noi”.
Le fonti di innovazione delle aziende
La Survey (basata sulle risposte di 205 Chief Information/Innovation Officer) ha chiesto di indicare le principali fonti nonché gli stimoli all’innovazione praticati negli ultimi tre anni e quelli che invece si prevedono essere più promettenti nei prossimi tre.
Come emerge chiaramente dalla figura 1, l’approccio degli ultimi tre anni è stato abbastanza tradizionale, con una netta preponderanza dei Vendor e sourcer Ict (40%, ai quali possiamo aggiungere il 26% delle Società di consulenza) e delle fonti interne (Linee di business, 38%, e Top management, 40%); un discreto contributo da parte dei Clienti (29%), ma un apporto decisamente minimo delle Startup (4%) e piuttosto basso di Università e Centri di Ricerca (15%).
Se però guardiamo a quanto dichiarato in relazione ai prossimi tre anni, notiamo una chiara inversione di tendenza, con una maggiore attenzione a fonti nuove rispetto a quelle tradizionali: la crescita più sostenuta (si veda il grafico di destra della figura 1) è proprio imputata alle Startup (274%), con Università e Centri di Ricerca che crescono del 40% e un aumento del 41% anche verso Aziende di altri settori non concorrenti, che può forse leggersi come la ricerca di nuove opportunità in settori contigui basate sulla collaborazione con aziende consolidate in questi settori.
“Ma l’interesse nei confronti dell’Open Innovation che emerge da questi dati non corrisponde ancora ad azioni concrete diffuse”, precisa Luksch. Come evidenziato in figura 2 vediamo infatti che il 45% delle imprese intervistate non ha ancora intrapreso alcuna iniziativa di Open Innovation e il 70% non ha ancora collaborato con una startup come fornitore (figura 3). “E perché non lo hanno fatto? Il 68% totalizzato dalla risposta Non abbiamo ancora avuto le risorse e le condizioni per focalizzare l’interesse sulle startup sembra proprio dire che, di fatto, non ci hanno ancora pensato, non hanno neanche preso in considerazione questa strada”, sintetizza Luksch analizzando la figura 4.
Startup: pro e contro
La Survey ha poi cercato di indagare, tra chi invece con le startup ha lavorato, quali sono stati i benefici acquisiti (figura 5) e quali le criticità (figura 6) che le aziende hanno dovuto affrontare.
Tra i benefici, al primo posto (57%) una risposta abbastanza scontata che sottolinea L’incentivo che ne deriva in termini di apertura culturale in azienda e la contaminazione continua. Sono invece particolarmente interessanti gli altri tre benefici in pole position (Sfruttamento dell’innovazione proveniente dalle startup per il lancio di nuovi prodotti/servizi innovativi e l’apertura di nuovi mercati, 55%; Riduzione del time to market e all’accelerazione del processo di sviluppo tramite esternalizzazione di parte dello stesso, 45%; Coordinamento semplice grazie alla struttura organizzativa, snella e flessibile, delle startup, 41%), come spiega Luksch: “Si tratta di indicazioni particolarmente coerenti con la ricerca, da parte delle imprese, di modelli più agili e di una cultura più aperta per contrastare i fenomeni della Digital Disruption. Le startup rappresentano quindi un modello a cui ispirarsi per favorire il rinnovamento culturale, e per uscire da schemi a silos e da processi lenti e vincolati che sono tipici delle imprese tradizionali. L’approccio lean, caratteristico delle startup – prosegue l’analista del Politecnico – diventa quindi una chiave di lettura fondamentale per rivedere e snellire i processi obsoleti delle imprese consolidate, mettendo altresì concretamente in pratica l’approccio Open Innovation. La contaminazione con l’ecosistema startup consente anche il necessario rinnovamento della cultura interna alle aziende in termini di ruoli, competenze, approcci e mentalità”.
Tra le criticità, oltre alla propria cultura interna, non abbastanza “aperta” (40%), si rileva un peso importante per gli ostacoli legati alla maturità della startup ingaggiata o alla finalizzazione del prodotto/servizio (34%), alla difficoltà d’implementazione delle idee innovative provenienti dalle startup in azienda o dallo scarso orientamento al B2B da parte delle startup (22%): “In questo sforzo di ibridazione e reciproco arricchimento – sottolinea Luksch – anche le startup possono e devono fare la loro parte per avvicinare due mondi culturalmente lontani, eppure chiamati a collaborare per sopravvivere. Troppo spesso la collaborazione con imprese interessate fallisce per una mancanza di rigore e affidabilità della startup, o per un eccessivo ‘innamoramento’ nei confronti della propria soluzione tecnologica”.
Quale ROI: Return of Investment o Return of Innovation?
Se, come abbiamo visto nell’articolo Percorsi, modelli e competenze di un dipartimento IT sempre più “liquido” e innovatore, l’innovazione permea l’azienda con cellule distribuite nelle varie aree, se l’impresa si apre all’innovazione verso soggetti nuovi e approccia la cultura del fail fast to learn faster e dell’iterazione rapida con una vera e propria rivoluzione copernicana nella gestione stessa dell’impresa, come si misura il risultato? L’indice del ROI, del ritorno dell’investimento è tutt’oggi valido? “No – risponde Luksch – parametri basati solo sull’efficienza e sulla prestazione perdono di senso in un contesto di questo tipo. Bisogna ridefinire nuovi parametri: quanti progetti ho sperimentato? Quanto rapida è stata la mia capacità di comprendere l’errore e modificare il progetto? E non parliamo solo di ritorno dell’investimento, cambiano le modalità di misurazione di molteplici processi, anche quelli più consolidati delle aziende” e Luksch fa l’esempio dell’ufficio acquisti e del processo di qualificazione dei fornitori: “Se lavoro con una startup o con un’università, il processo di qualificazione non passa certo dal fatturato, dalla ragione sociale o da altri fattori tradizionalmente utilizzati. Bisogna pensare ad altre metriche ancora tutte da identificare e definire”.