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CIO e best practice: le strategie agili per la gestione di sistemi complessi



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Le tradizionali best practice si rivelano inadeguate in un panorama in continua evoluzione. Il framework di Dave Snowden e lo schema Bimodale di Gartner offrono nuove prospettive su come i CIO possono modellare le organizzazioni attraverso approcci agili

Pubblicato il 6 gen 2025



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La realtà del nostro tempo è dominata dalla presenza di un ecosistema globale, un mix di sistemi sociali, politici, economici, ambientali, oltre altri, che unisce ogni fenomeno in un unico “tutto” in modo sempre più disordinato e complesso.

Di fronte a questa realtà, le organizzazioni non stanno ancora reagendo concretamente per affrontare la complessità, come dimostra il fatto che la maggior parte dei sistemi sui quali facciamo completo riferimento sono in esercizio senza alcuna garanzia di funzionamento e soprattutto senza nessuna capacità di mutua relazione.

Imprescindibilità del software, ma quale?

Ogni organizzazione, indipendentemente dalla sua dimensione, per il proprio funzionamento utilizza il software, un utilizzo che consente oggi un’efficienza operativa impensabile senza di esso.

Nel corrente scenario della “gestione aziendale” l’utilizzo del software rappresenta, perciò, una necessità imprescindibile.

Correntemente, però, l’acquisizione del software avviene secondo una prassi definita “modale”, per la quale viene ritenuto che, un prodotto software già diffuso sul mercato, soprattutto se a livello internazionale, sia necessariamente sinonimo di garanzia della scelta.

Ma appare evidente che, in uno scenario di riferimento sempre più dinamico, tale scelta rappresenti una prassi sempre meno efficace rispetto alle reali necessità di gestione delle aziende.

Infatti, per poter soddisfare le esigenze di tante organizzazioni, anche profondamente diverse, tali prodotti software devono essere necessariamente basati sulle cosiddette “best practices“.

Eppure, contributi recenti, come è quello di Dave Snowden dimostrano come le best practices possono validamente applicarsi solo in contesti semplici, contesti che attualmente, nella maggior parte delle situazioni, non sono quelli nei quali si trovano ad essere implementate.

Strategie organizzative e relazioni causa-effetto

Lo schema seguente suggerisce un metodo di definizione delle strategie organizzative e mette in evidenza come le scelte della azione organizzativa dipendono dalla condizione delle relazioni tra causa ed effetto dei fenomeni.

Strategie organizzative e processi decisionali: il framework di Dave Snowden

Quando si dovesse accertare che, come oramai è ampiamente diffuso, il contesto di riferimento è complesso, lo schema suggerisce un vero e proprio cambio di paradigma: il passaggio dalla attuale pianificazione ex ante della successione percepire-analizzare-rispondere, quello per il quale sono adottabili compiutamente le best practices, alla futura agentività ex post della successione agire-percepire-rispondere, per la quale sono necessarie nuove pratiche emergenti.

I problemi della prassi dell’acquisizione di sistemi informativi basati sulle “best practices”, ovvero sistemi che possono essere validamente implementati in domini semplici della conoscenza ma impiegati in divisioni e funzioni che gestiscono fenomeni complessi, sono evidenti:

  • fallimento dei progetti;
  • ingenti costi di personalizzazione;
  • rigidità rispetto al cambiamento.

In particolare, si può osservare, come tale prassi di acquisizione “modale” abbia condotto, nel tempo, ad una vera e propria omologazione del funzionamento organizzativo e ad una conseguente incapacità di differenziazione competitiva, tanto che oramai esiste la consuetudine per la quale il prodotto software viene calato dall’alto e l’organizzazione è costretta ad adeguare le sue procedure, fino al punto di doversi modificare per il suo utilizzo.

Dovrebbe essere evidente che, invece, una condizione virtuosa è quella opposta, per la quale è il software che deve essere capace di adattarsi alle esigenze organizzative specifiche della singola azienda e questo è sempre più vero quanto più i domini sottostanti le realtà organizzative si stanno trasformando in contesti ad elevata complessità.

L’attuale risposta delle aziende è quella di ricorrere alle cosiddette Big 4 (le quattro grandi società di consulenza e revisione legale: Deloitte, PwC, KPMG e EY) e alle grandi case produttrici di software e di servizi cloud (SAP, Oracle, Microsoft, Alphabet, Salesforce, IBM, etc.) per raggiungere i loro obiettivi.

In questo modo spostano la comprensione del dominio di appartenenza dalle migliori alle buone pratiche, ovvero quelle che derivano dalla competenza e conoscenza superiori degli esperti del settore. Il ricorso alle società di consulenza e ai colossi del software e del cloud, tuttavia, è oggetto di un ampio dibattito in riferimento ai rischi della dipendenza e soprattutto della cosiddetta “infantilizzazione” ovvero una crescente incapacità di competenza interna.

Questo fenomeno è spiegato perfettamente e dimostrato ampiamente in un libro coraggioso e doloroso nello stesso momento.

Coraggioso, per il coraggio dimostrato dalle due autrici Mariana Mazzucato e Rosie Collington nel mettere in chiara luce il “grande imbroglio” con dati che lasciano attoniti e sgomenti, tutti ovviamente riscontrabili attraverso la citazione puntuale delle fonti.[1]

Doloroso, invece, se si considera che di fronte al gigantismo e al monopolio di queste società, le quali detengono la stragrande maggioranza dei dati digitali, solo una rivoluzione potrà cambiare il destino del “grande imbroglio”, quello per il quale a pagare sarà sempre di più una massa indistinta di cittadini del mondo incapaci di uscire dall’archetipo del principio della rana bollita.

Orientare i CIO, lo schema Bimodale di Gartner

Per orientare le organizzazioni verso una migliore comprensione delle necessità di una coerente dotazione di sistemi informativi, capace di rispondere alla crescente complessità dei sistemi, gli analisti di Gartner hanno ideato lo “schema bimodale”.

Lo schema bimodale di Gartner

Secondo lo schema bimodale, la dotazione IT di un’azienda deve comprendere sia sistemi basati sull’affidabilità che rappresentano il maratoneta, che di quelli basati sull’agilità che rappresentano il velocista.

Rispetto alla garanzia dei risultati, i vantaggi dei metodi agili, come strumenti di ingegneria del software capaci di generare sistemi più aderenti alle specifiche necessità delle organizzazioni, sono evidenti.

Value proposition: le differenze fra lo sviluppo tradizionale e quello agile

Tuttavia, deve essere rilevato che questi metodi hanno un obiettivo specifico: lo sviluppo efficiente del software, creato in modo rapido e iterativo e basato sulla distribuzione continua. Ebbene tale obiettivo di qualità del metodo di sviluppo del software, non è necessariamente espressione di una capacità di governo della complessità.

Inoltre, lo schema bimodale nulla può suggerire relativamente alle esigenze specifiche delle organizzazioni e, conseguentemente, al peso che le due modalità, tradizionale e agile, debbono avere rispetto alla configurazione generale.

Contesti complessi e approccio agile

Per comprendere come modulare il peso delle due modalità rispetto all’intera dotazione IT è possibile ricorrere alla matrice di Ralph Douglas Stacey.

Lo schema dimostra come, quanto più l’organizzazione si trova ad operare in contesti complessi o caotici (nei quali sono poco o affatto conosciute le relazioni tra le diverse entità di riferimento) tanto più risulta necessario un approccio agile, perché, per affrontare la complessità, è necessario mettere in atto velocemente opportune strategie alternative, con quella agilità e velocità che proprio l’approccio agile consente.

La matrice di Stacey

In definitiva, per affrontare la complessità che sta permeando tutte le organizzazioni, sociali, politiche ed economiche, vi è una impellente necessità di passare dall’attuale risposta del mercato: quella delle buone pratiche suggerite dai consulenti esperti, ad una nuova risposta che si basa sulla generazione di nuove pratiche emergenti.

In questo senso deve essere ben chiaro come nel dominio complesso sia necessario “sperimentare”. Un’azione che può essere realizzata solo con il contributo e la volontà di creatività e partecipazione di tutte le persone impattate dal contesto, sia internamente che esternamente all’organizzazione.

Non sono più gli esperti, dunque, che possono risolvere la complessità. La risposta ora può e deve avvenire dall’unione di tutte le competenze e le sensibilità, cioè dalla generazione di comunità di intenti.

Una soluzione: il “metodo al contrario”

Il “metodo al contrario” è una metodologia che rappresenta una possibile risposta alla necessità del governo della complessità. È una metodologia agile per una nuova modalità di co-creazione di sistemi informativi per l’automazione dei processi organizzativi, che si basa sui principi del pensiero sistemico e ha come obiettivo l’apprendimento organizzativo.

Si tratta di una continua crescita nella creazione della competenza e conoscenza interna dell’organizzazione, basata sulla valorizzazione delle risorse umane, considerate propriamente come talenti interni e un’azione che può essere realizzata solo con il contributo e la volontà di creatività e partecipazione di tutte le persone impattate dal contesto, sia internamente che esternamente all’organizzazione.

Il “metodo al contrario” si realizza attraverso due fasi di intervento: la facilitazione e l’automazione. Queste fasi hanno il carattere di autoconsistenza (possono essere implementate singolarmente) e propedeuticità (la prima rispetto alla seconda).

Figura 1 – interfaccia del framework cloud XCASE

Fase di facilitazione

La fase della facilitazione si concretizza con l’incontro e la partecipazione delle persone nelle pratiche note come design thinking, al fine di generare la co-creazione delle idee per sperimentare la definizione di nuovi processi o la modifica del funzionamento di quelli esistenti.

Questa attività viene realizzata come azione capace di far fluire empatia, creatività e collaborazione come momenti capaci di trasformare le sfide della complessità in significative opportunità di crescita del valore – espresso sia in termini di quantità che di qualità – delle entità gestite nei processi.

Dal punto di vista del framework si utilizzano strumenti di mappatura grafica delle entità e delle relazioni sottostanti i domini dei diversi sistemi organizzativi.

Figura 2 – interfaccia del framework cloud XCASE

Le tecniche di design thinking sono numerose, ma la condivisione delle entità che influiscono sul sistema e delle loro relazioni, nella fase divergente della metodologia, diviene uno dei momenti più significativi per la valorizzazione dei talenti interni. Le persone in questo modo, infatti, diventano realmente attori principali della stessa interpretazione del loro funzionamento organizzativo.

La fase della definizione delle relazioni tra entità che influiscono sul sistema sarà ripresa ogni qual volta l’osservazione dello stesso consentirà di comprendere come sia necessaria una nuova investigazione delle cause che hanno determinato il suo perturbamento. Questa azione ciclica è la rappresentazione reale dell’organizzazione che apprende dal suo stesso funzionamento.

Obiettivo della facilitazione, nella fase convergente del design thinking, è la mappatura delle relazioni e dei processi organizzativi ideati o reingegnerizzati. Questi ultimi vengono formalizzati, sempre attraverso l’utilizzo del framework, in modalità di diagramma Business Process Model and Notation.

Figura 3 – interfaccia del framework cloud XCASE©

La formalizzazione dei diagrammi non è vincolante ai fini dello sviluppo del “metodo al contrario”, ma certamente lo è, per quel che si dirà fra poco, la definizione dei passaggi di stato dei processi.

Fase di automazione

La fase dell’automazione si concretizza nella trasformazione, degli eventi sottostanti ai passaggi di stato dei processi organizzativi, in un sistema di osservazione dei loro andamenti nel tempo.

Nella figura 4 si visualizza come l’effetto delle due azioni organizzative durante il periodo M7 abbia condotto ad un fenomeno di omeostasi nel periodo M11.

Figura 4 – interfaccia del framework cloud XCASE

Tale fase può realizzarsi in due modi diversi.

  1. Attraverso lo sviluppo prototipale rapido e incrementale dei diagrammi BPMN, in applicazioni software per l’automazione dei processi organizzativi realizzato con il framework cloud XCASE. Utilizzando questa prima modalità, si concretizza la partecipazione attiva delle persone che permane costante anche in questa fase proprio per la natura proattiva dei sistemi di ingegneria del software agili come XCASE. Questi, infatti, si basano su una interazione continua durante lo sviluppo applicativo con l’esperienza e l’utilizzo dell’utente che, appunto, da un lato è lo stesso che ha generato il processo delle necessità e dall’altro è l’utilizzatore finale della soluzione.
  2. La seconda modalità è l’utilizzo di un set di OpenAPI, interfacce aperte per mezzo delle quali possono essere ricevuti i log degli eventi dei processi gestiti in qualsiasi applicazione aziendale esistente. Ovviamente in questo caso se le entità dei processi gestiti sono implementate su più applicazioni diverse saranno necessarie alcune interfacce di decodifica per l’armonizzazione degli oggetti digitali trattati.

In entrambe le modalità, obbiettivo della metodologia è, sempre, l’osservazione dei sistemi attraverso il controllo dell’andamento dei processi, seguendo di fatto le intuizioni di Donella Meadows quando afferma che non è possibile controllare i sistemi o capirli ma è possibile “danzare con loro[2].

Tale osservazione, infatti, conduce nuovamente alla facilitazione attraverso un continuo riesame degli effetti delle azioni e degli eventi organizzativi, al fine di scoprire quali altre variabili debbano essere tenute sotto osservazione per raggiungere la spiegazione concreta le dinamiche del sistema.

Nella figura 5, pertanto, sono state aggiunte due entità al fine di cercare la spiegazione del fenomeno bilanciante osservato in M11. Queste in particolare sono: gli eventi che il processo subisce per cause esterne alla volontà dell’organizzazione e l’andamento mensile delle temperature medie registrate nell’area geografica di riferimento (semplicemente attraverso le richieste ad un servizio del sistema di marketplace RapidAPI).

Figura 5 – interfaccia del framework cloud XCASE

Tale possibilità, in definitiva, rappresenta una vera e propria necessità per la comprensione olistica dell’ecosistema di riferimento, ovvero quel sistema di complessità emergente nel quale ogni organizzazione oramai si trova immersa.

Il “metodo al contrario” è pertanto una metodologia che, attraverso l’applicazione dei principi del pensiero sistemico, indaga il funzionamento dei processi aziendali e gli effetti del cambiamento, al fine di generare organizzazioni capaci di affrontare la complessità dei sistemi.

Ma, in definitiva, il “metodo al contrario”, attraverso il coinvolgimento della capacità di partecipazione delle persone alla co-creazione delle proprie modalità di funzionamento, consente di raggiungere risultati ben più importanti: quelli di scoprire e modificare positivamente i modelli mentali che caratterizzano il funzionamento delle organizzazioni, per trasformarli in una comunità di interessi capace di evolvere e apprendere continuamente.

Un caso d’uso: il sistema di gestione integrato

Un contesto nel quale la metodologia “al contrario” si adatta perfettamente è quella del cosiddetto “sistema di gestione integrato”. Si tratta di un sistema informativo capace di governare, insieme, i diversi modelli organizzativi di assicurazione della qualità, il più noto dei quali è quello QSA (Qualità, sicurezza e ambiente).

Dato l’impatto che questi modelli hanno su altre necessità di gestione informativa come, ad esempio, il modello organizzativo di gestione ESG (Environmental, Social and corporate Governance), un simile approccio partecipativo risulta capace di coprire tutti gli aspetti dei diversi modelli organizzativi di gestione in maniera unitaria e, l’aspetto più rilevante, con la massima efficienza ed efficacia possibili.

Figura 6 – sistema di gestione integrato

Il “metodo al contrario”, infatti:

  • si genera dalle necessità informative, che possono essere considerate come le prescrizioni dei modelli organizzativi di gestione;
  • si manifesta attraverso la co-creazione delle entità e delle loro relazioni come espressioni digitali di tali bisogni;
  • si concretizza nella definizione degli algoritmi di elaborazione necessari alla produzione dei dataset di osservazione nel tempo;
  • e termina nella strutturazione dei dati granulari necessari ad alimentare tale elaborazione.

Se si considera che generalmente i sistemi di business intelligence, vengono generati a partire dalle basi informative preesistenti come strumenti, capaci della trasformazione dei dati in informazioni, si comprende la natura completamente al contrario della metodologia, che si attua viceversa come trasformazione delle informazioni in dati.

Riferimenti

[1] Mariana Mazzucato, Rosie Collington, Il grande imbroglio, Laterza, 2023.

[2] Donella H. Meadows, Pensare per Sistemi, Guerini Next, 2019.


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