Un mio amico, uomo di grande cultura e di indubbia competenza manageriale, ha scritto recentemente: “Chiusi nel ruolo, non possiamo dare all’organizzazione il contributo che saremmo in grado di dare. La censura imposta dall’organizzazione alla manifestazione delle potenzialità individuali finisce per tradursi in autocensura. Convinti che non avremo spazio, si finisce per non provarci nemmeno.”
Sono convinto che questa frase rispecchi e fotografi in modo provocatorio quanto talvolta viviamo nelle nostre aziende a proposito di innovazione e di rapporto business-IT.
Pertanto vorrei partire proprio da qui, da questa provocazione sull’autocensura per proporvi qualche piccola riflessione.
Perché oggi finiamo per “non provarci nemmeno” ? Chi non ci prova ?
Forse un po’ tutti: c’è l’uomo del business che è deluso perché ritiene di non essere capito dall’IT, perché pensa che i tempi di sviluppo IT siano troppo lunghi, le modalità di relazione con l’IT troppo rigide; c’è l’uomo IT che è scoraggiato perchè il business cambia sempre idea e/o non è mai preciso nel comunicarla, perché gli sviluppi fatti, a volte vengono poco valorizzati ed accantonati, perché non c’è consapevolezza piena sull’importanza della tecnologia, sulla sua complessità e sulle difficoltà che lui vive per gestirla; c’è la Direzione che è perplessa perche ritiene che i costi dei progetti siano troppo elevati. Insomma ognuno ci mette del suo per aumentare una sorta di scetticismo di fondo.
E poi si aggiunge la crisi economica complessiva che acuisce le difficoltà di tutti.
E allora ? Esiste una via d’uscita?
Ovviamente non ho nessuna ricetta magica. Mi limito a sottolinearvi che non possiamo esimerci dall’interrompere questo perverso gioco che legge sempre la diversità degli altri come una sorta di mancanza altrui, un deficit da accettare sbuffando solo per personale benevolenza.
In questo contesto il potere non va letto come controllo e dominio, ma come possibilità. Si può!!! Si può agire, si può costruire, si può collaborare, si possono far succedere le cose: questo è il potere che dobbiamo riscoprire e rilanciare nelle nostre aziende, soprattutto in questo periodo di difficoltà. Collaborare, cioè lavorare-con: con gli altri, ma anche con passione, con determinazione, con senso di appartenenza aziendale.
Mi viene in mente un’immagine. Qualcuno tempo fa disse che creare una scultura significa rimuovere la materia in eccesso. Come dire: la statua esiste già, l’artista deve solo farla emergere togliendo dal marmo le parti inutili, superflue, che appesantiscono e nascondono l’opera d’arte. L’artista è proprio colui che sa vedere questo “di più” da rimuovere e sa farlo, sa realizzarlo.
Nel mondo aziendale non potremmo allora forse dire che innovare è semplificare? Che la creazione del futuro dell’impresa dipende dalla riduzione degli orpelli e delle orgogliose primogeniture progettuali? Che un’applicazione nuova, utile, efficiente, dipende dalla eliminazione di funzionalità complesse, costose, difficili da sviluppare e poi quasi mai utilizzate nella pratica? Che il manager, il collaboratore, il knowledge-worker di cui abbiamo bisogno è proprio colui che sa concretizzare questa semplificazione?
Sappiamo tutti che i modelli aziendali si evolvono soprattutto a causa di variabili esogene: il mercato, la regolamentazione, l’evoluzione della tecnologia. Ciò significa che non possiamo governare la maggior parte dei fattori di cambiamento. Per non essere sommersi dall’incalzare degli eventi possiamo, accettando la logica di interconnessione e di perenne fluidità delle cose, “atomizzare” i nostri interventi per rendere possibile ed agile ricomporre funzionalità e software sottostante.
Ed in questo non dobbiamo partecipare ad uno sport oggi troppo diffuso: copiare gli altri, prendere per buono qualcosa perché “lo fanno tutti” oppure perché “lo dice il consulente”. Ma se seguiamo sempre lo stesso schema come possiamo pensare davvero di innovare? Se percorriamo sempre la medesima strada non possiamo che raggiungere la medesima destinazione. L’imitazione ci porta a essere nel gruppo, non a essere vincenti; e la competizione che oggi si vive sui mercati rende insufficiente pensare in questo modo “adattativo”.
Forse quello che serve è un po’ di coraggio in più nel cercare percorsi propri, coerenti con le nostre storie aziendali; attenti certo alla realtà degli altri e al contesto in cui ci muoviamo, ma anche in cerca di ciò che non c’è ancora, di modelli aziendali semplificati, secondo un paradigma di interconnessione policentrico.
E questo è vero in egual misura per il business e per l’IT.