Capitale umano e competitivita’ di impresa

Quale rapporto esiste tra l’evoluzione dei modelli di gestione delle risorse umane, miglioramento competitivo d’impresa e tecnologie It? ZeroUno ha sentito l’opinione di addetti ai lavori ed esperti in materia.

Pubblicato il 07 Ott 2005

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Come gestire il potenziale umano in azienda? La prima risposta che viene naturale al “classico” responsabile Hr di una grande organizzazione potrebbe essere la seguente: utilizzare la tecnologia informatica per coniugare la formazione delle risorse disponibili con il raggiungimento degli obiettivi di business.
Analisi lucida ed essenziale che però comporta doverosi approfondimenti, a cominciare da quelle regole non scritte che ormai connotano il fattore “human resource” quale grande differenziatore richiedente massima flessibilità di gestione e che confermano come modelli di competenza definiti chiaramente possano divenire un parametro strategico per lo sviluppo dell’attività aziendale. L’information technology, in questo quadro, deve quindi intendersi, come del resto succede ormai in tutti i processi chiave di “business development” e di “project management” della grande impresa, lo strumento con il quale identificare e certificare i modelli, tradurli in procedure dinamiche ed estenderli in modo organico a tutti gli elementi dell’organizzazione.

Competenze da formare e valorizzare, attraverso l’It
ZeroUno ha voluto entrare nel merito della tematica raccogliendo le impressioni di chi con le risorse umane e la loro evoluzione ha a che fare quotidianamente.

Antonio Barge, Direttore Risorse Umane in Boehringer Ingelheim, multinazionale farmaceutica tedesca presente in Italia con 1.200 dipendenti in tre sedi, ha sottolineato innanzitutto come “nel nostro settore è il capitale delle competenze che fa la differenza in termini di maggiore competitività, di miglioramento sostanziale dei risultati di business. Per questo è cruciale il poterle e doverle valorizzare ed è quindi strategico investire in soluzioni informatiche adeguate per portare il modello di gestione e sviluppo sulla scrivania di ogni manager e di ogni singolo addetto. Per tradurre in concreto tale obiettivo serve un dialogo costante tra funzione Hr e linee, anche per evitare il rischio di mal utilizzare o addirittura sprecare le risorse tecnologiche a disposizione”. Sul tasto delle competenze passa anche l’analisi di Giulio Brancatelli, Hr Director delle divisioni Bottega Veneta, Gucci Group, un’azienda che nel suo complesso impiega oltre 12.000 addetti e che per soddisfare le proprie esigenze di crescita del personale ha creato una rete intranet su misura. “La volontà di valorizzare il patrimonio delle risorse umane – ha spiegato – si può tradurre in sistemi di valutazione delle competenze e delle performance estesi a tutti i profili aziendali: questo è almeno quanto abbiamo creato in Gucci con efficaci risultati, riconoscendo a ogni persona un ruolo ben definito. Tra gli obiettivi primari di un simile progetto vi è quello di erogare formazione in modo esteso e misurarla a posteriori e per raggiungere tale fine è stato necessario puntare alla semplicità delle applicazioni It, il cui compito è quello di veicolare sul sistema aziendale in modo trasparente e veloce le informazioni”.

Mario D’Ambrosio, Presidente dell’Aidp, l’Associazione italiana per la direzione del personale che riunisce quanti operano nell’area delle risorse umane in posizioni direttive o di rilievo professionale (imprese di ogni dimensione e settore, sia private sia a partecipazione statale e pubbliche) ha un’idea ben precisa di come possa impattare il fattore Hr sulle fortune di un’organizzazione. “Per entrare nel merito della relazione fra risorse umane e competitività aziendale – sostiene D’ambrosio – occorre innanzitutto chiedersi se la formazione va intesa come funzione. Il capitale intellettuale è il vero patrimonio delle imprese e in questo senso vanno pensati finanziamenti statali per il suo adeguato sviluppo, investendo sul ruolo, sulla responsabilizzazione, sulla preparazione, sulle motivazioni e sugli incentivi delle singole professionalità. Il punto di arrivo deve essere la capitalizzazione della conoscenza aziendale e la creazione di quei presupposti utili alla realizzazione di sistemi di knowledge management da distribuire all’interno delle organizzazioni attraverso reti intranet, portali Internet o piattaforme di e-learning”. Il compito dell’It, sembra di capire, viene ridimensionato a semplice mezzo? La risposta di D’Ambrosio in tal senso non lascia molti dubbi: “La tecnologia It, in sé, non produce valore, ma va intesa come abilitatore ed erogatore di modelli di formazione e di gestione delle competenze”.

Fra knowledge management e outsourcing
La riflessione di

Maurizio Decastri, Professore ordinario di Organizzazione Aziendale presso la facoltà di Economia dell’Università di Roma II – Tor Vergata, va ancora oltre e prende in esame metodologie alternative alla classica gestione di figure e professionalità. “Il capitale umano come patrimonio d’impresa – ha sottolineato Decastri – è un concetto emerso dalla metà degli anni ‘90; in parallelo si è sviluppato il concetto di knowledge management quale processo di accumulo, produzione e diffusione di conoscenza. Ma si tratta di un modello perfetto solo sulla carta e molto complesso da realizzare compiutamente. Quanti progetti di tal genere sono stati effettivamente implementati con profitto?”. Introdotto il tema, Decastri non si è sottratto a una fotografia più accurata dello stesso ribadendo per esempio come “gli strumenti operativi e le logiche sui quali si basa un sistema di knowledge management non sempre sono stati realmente compresi e utilizzati nel modo più opportuno. Un progetto di Km, in particolare, deve essere letto anche come strumento di cambiamento culturale e, quindi, anche di gestione degli equilibri di potere”.

Presupposti, quelli appena rilevati e commentati, che portano inevitabilmente a disquisire sull’opportunità o meno di ricorrere all’outsourcing delle risorse umane. “Esternalizzare con attenzione alcune funzioni – secondo Decastri – ha senso e per vari motivi. Ricorrendo all’outsourcing e affidando all’esterno alcuni processi di Hr management, dalle attività amministrative ripetitive come le buste paga alla gestione della formazione, cambia il ruolo del direttore del personale, che di fatto diventa un sofisticato “buyer” di competenze con compiti ben precisi: sviluppare professionalità interne sui task più complessi e sofisticati, governare la ricerca e lo sviluppo della conoscenza, gestire le relazioni con il ‘cliente management’, scegliere e controllare il fornitore esterno”. Il ricorrere a un progetto di delocalizzazione delle competenze richiede in ogni caso scelte oculate, che Decastri non ha mancato di mettere in evidenza: “Il provider di funzioni Hr deve essere scelto sia sulla base di criteri analitici e verificabili, in tal senso diviene determinante saper costruire e controllare i service level agreement, sia sulla base di una conoscenza “fiduciaria” dell’azienda fornitrice, per cui assume rilevanza strategica la capacità intuitiva del direttore del personale nella lettura dei segnali deboli”. A prescindere dalle modalità con le quali il fattore Hr può e deve gestito e sviluppato, quello che sta avvenendo in seno a molte (grandi) organizzazioni ci sembra ben riassunto nelle parole conclusive di Decastri: “Cambiano e stanno cambiando, di pari passo con le dinamiche di ruolo, anche le regole di gestione del potere e l’approccio strategico alle risorse umane: destinare meno tempo per le attività correnti significa anche la possibilità e il dovere di assegnare più attenzione ed essere più dentro ai processi di gestione del potere e delle strategie aziendali”.


L’ANALISI DI SDA BOCCONI

Un campione di oltre 400 imprese per misurare quanto può essere strategica la voce risorse umane in azienda, per smentire o confermare il luogo comune che vede solo i settori in salute investire seriamente in soluzioni di Hr management mirate. La tesi secondo cui l’andamento dell’economia si riflette sul valore attribuito ad addetti e formazione, che viene di fatto penalizzato nelle fasi di stagnazione congiunturale, è l’antefatto sul quale i responsabili dell’Area Organizzazione & Personale SDA Bocconi hanno elaborato una serie di risposte tendenti a rilevare l’attuale relazione fra capitale umano e i risultati conseguiti dall’azienda. L’indagine ha messo a fuoco tematiche assai attuali e che oggi contraddistinguono l’evoluzione del sistema aziendale nel suo insieme e quindi le “practice” di Hrm che caratterizzano le imprese con elevate performance, le diverse percezioni delle direzioni del personale e dei clienti interni (top management e addetti di line) in rapporto alle attività critiche nella gestione delle persone, i pro e i contro dell’esternalizzazione di particolari processi di gestione delle risorse umane. Fra i vari indicatori emersi, due inquadrano fedelmente le abitudini di fondo delle organizzazioni italiane: le dimensioni aziendali (fatturato e numero di dipendenti) non mostrano alcuna relazione statisticamente significativa con l’importanza delle diverse attività di Hrm, mentre al crescere del numero dei dipendenti cresce l’autonomia attribuita dal top management alla direzione del personale. Più nel dettaglio, l’analisi di Sda Bocconi ha detto che il ricorso all’outsourcing è sempre più diffuso (perché pagante in termini di benefici prodotti) per quanto riguarda l’amministrazione, la selezione e la formazione del personale e che il ruolo dell’It diventa sempre più importante, ma non viene ancora inteso quale reale strumento a valore aggiunto per evolvere i processi bensì solo per automatizzarne meccanicamente alcune attività. L’ingerenza del top management sulle questioni del personale è più marcata laddove il ruolo degli addetti è maggiormente legato alla produzione del business ed è purtroppo ancora frequente registrare superiori budget di spesa per attività di “downsizing” del personale (tagli incentivati) che non per progetti di “outplacement” mirati per rispondere a nuove esigenze del mercato. (G.R.)

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