Nel calcolo dei ‘costi e benefici’ del cloud computing si sono fino a oggi sottolineati soprattutto i vantaggi in termini di flessibilità, di scalabilità, pay per use e così via che il cloud garantirebbe. La comunità It non si è invece ancora impegnata sul tema dell’impatto del nuovo modello sui livelli occupazionali del personale It. Un tema obbligato, parlando di cloud, visto che questo modello sposta, almeno in parte, il carico di lavoro It dall’organizzazione utente ai fornitori di servizi esterni. Un’occasione per stimolare la discussione viene dai risultati di un’indagine commissionata da Emc al Cebr (Centre for Economics and Business Research) che ha analizzato i vantaggi che 5 paesi europei, tra cui l’Italia, avranno dall’utilizzo del cloud computing. Tra gli altri vantaggi, l’adozione del cloud computing porterà nei 5 paesi europei a una crescita di occupazione diretta e indiretta di 2,5 milioni di unità nel periodo 2010-2015.
Numeri interessanti ma anche qualche contraddizione quando il Cebr dichiara che tra i benefici che il cloud porterà alle organizzazioni ci sarà una riduzione nel numero delle persone che si occupano di It. Evidentemente si pensa che i professionisti a cui il cloud toglie lavoro da una parte, lo troveranno da un’altra, all’interno o al di fuori di quella stessa organizzazione. Questo almeno sembra di capire quando un economista dello stesso Cebr dichiara che “in una prospettiva macroeconomica, le perdite di occupazione nei dipartimenti It porteranno le organizzazioni a risparmi e quindi a una crescita dei profitti che si trasferirà positivamente sull’intera economia”. Uno schema che potrà anche convincere, ma a mio parere solo ‘in una prospettiva macroeconomica’ del tutto teorica.
In cerca di ‘soft skill’
Ancora sul rapporto cloud-occupazione. Un responsabile di una società di servizi It del Gruppo Csc interviene sul sito www.information-age.com sostenendo un’apparente contraddizione: “l’automazione portata dal cloud computing ridurrà [in una prima fase ndr] il numero di system administrator necessari per mantenere le attività allo stesso livello, ma il cloud determinerà un più intenso utilizzo di risorse It e quindi crescenti attività di gestione e richiederà un maggior numero di specialisti in amministrazione dei sistemi [nel lungo periodo ndr]”. Per altri commentatori, il cloud sposterà la professionalità degli addetti It “da ruoli tecnici di basso livello a ruoli specializzati in aree come il project management, il business change e il supplier management”, aree con caratteristiche di trasversalità tali da favorire maggiori opportunità di trasferire skill e competenze tra progetti e aree non sempre solo It.
Che il cloud rappresenti l’ennesima occasione per portare i professionisti It ad acquisire maggiori competenze business sembra ormai un’idea fortemente condivisa. “Le professionalità It di tipo strettamente tecnico saranno messe sempre più in crisi dal passaggio al cloud computing – dichiara un analista di QuoCirca al sito www.information-age.com. Gli skill più gettonati in futuro saranno quelli che incrociano le competenze tecniche con quelle sui processi aziendali, gli skill capaci di intercettare le esigenze profonde del business e di individuare le risposte a queste necessità, le risposte già disponibili internamente e quelle che si possono acquisire da servizi esterni”.
Sull’evoluzione dello skill-set degli ‘information worker’ si concentra anche una delle newsletter del sito www.informationmanagement.com che mette in dubbio la validità delle tradizionali competenze tecniche e fornisce anche qualche suggerimento sul tema. La ricetta proposta è, in estrema sintesi, la seguente: nelle organizzazioni attuali la capacità dei professionisti It di comunicare con le linee di business (acquisti, vendite, finanza, produzione ecc.) è almeno altrettanto importante della competenza strettamente tecnica. Questa considerazione si inserisce in un trend generale che vede le organizzazioni leader alla ricerca di personale con skill di tipo generale e trasversale (gli americani parlano di ‘soft skill’) ovvero di competenze e capacità di comunicazione interpersonale, di organizzazione e di ascolto. Questi ‘soft skill’ sembrano a molti un toccasana per ridurre le differenze culturali e professionali all’interno delle organizzazioni, agendo così come una sorta di cuscinetto capace di attenuare le cause di possibili attriti e inefficienza (su queste tematiche vedi l’articolo approfondito di Alessandro Agostoni a pag. 56 su questo stesso numero).
A proposito di It e marketing
A un recente convegno ho sentito parlare di ‘rapporti problematici’ tra It e marketing in molte aziende. Mi è venuta così la curiosità di capire ‘il punto di vista del marketing’ e ho provato a girare tra i siti dedicati a quel mondo professionale. Mi ha colpito il sito www.cmo.com (Cmo sta per Chief marketing officer) con una home page affollata di titoli con molti riferimenti a social media, social networking, marketing digitale e così via. Ho trovato anche un titolo piuttosto ‘promettente’ – “Why marketers shouldn’t solely run the social media show?” – e in effetti l’approccio al tema sembrava rispondere alle attese sostenendo la tesi che alla costruzione di una strategia social media dell’azienda deve lavorare un team che comprenda le diverse competenze aziendali e cioè quelle del ‘marketing offline’ (che magari non conosce il web 2.0 ma “ha alle spalle anni di esperienze sul campo”), quelle del reparto Pr (“per attirare l’attenzione dei media”); quelle dei team di social marketing, di customer service e, infine, quelle dell’It. Ed è interessante il modo in cui l’articolo presenta la partecipazione dell’It al team – “Yes, even It has a stake in your social media efforts” – quasi immaginando una certa sorpresa del lettore-tipo (un professionista del marketing, si presume) nel trovare anche l’It coinvolta nell’iniziativa! E qual è la competenza di cui l’It sarebbe portatrice all’interno del team? Quella, piuttosto old fashion, di garantire la continuità di funzionamento dei sistemi e la loro scalabilità di fronte ai possibili picchi di carico indotti dall’auspicabile successo di una iniziativa di ‘marketing virale’.