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Competenze digitali, perché e come investire sulle persone

Secondo il Cefriel diverse sono le barriere che impediscono di colmare il gap di competenze digitali esistenti in Italia, la formazione deve invece diventare un’occasione strategica

Pubblicato il 27 Apr 2022

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Con l’obiettivo di analizzare le barriere allo sviluppo diffuso delle competenze digitali e contribuire a portare elementi di riflessione intorno a un tema centrale, Cefriel, centro di innovazione digitale fondato dal Politecnico di Milano, ha pubblicato il white paper Investire sulle persone – formare per la cittadinanza, la trasformazione, l’innovazione, frutto di un lavoro comune fra Franco Amicucci, Marco Bentivogli, Federico Butera, Alfonso Fuggetta e Roberta Morici.

L’approfondimento è parte della collana ideata da Cefriel e dedicata ai grandi temi legati all’innovazione digitale dell’impresa e della Pubblica Amministrazione.

Nel documento sono evidenziati da un lato i problemi che ancora caratterizzano l’Italia e, dall’altro, le leve di intervento. Ecco in breve cosa è stato osservato.

Nonostante la spinta alla trasformazione digitale di imprese e Pubbliche Amministrazioni alla quale si è assistito in questi ultimi due anni, il problema riferito alle scarse competenze digitali delle persone permane, con un’Italia terzultima in Europa per digital skill secondo il DESI 2021.

Parlare di competenze digitali oggi significa parlare della formazione per il digitale, che ha come obiettivo lo sviluppo della cultura, delle conoscenze e delle competenze delle persone, affinché possano vivere in pienezza la propria esperienza professionale e la propria presenza nella società. Conoscenze e competenze che abilitano dunque la cittadinanza, la trasformazione dei processi e del lavoro oltre che l’innovazione digitale.

Secondo l’analisi contenuta nel white paper Cefriel, diverse sono le barriere che impediscono di colmare il gap di competenze digitali esistenti nel nostro Paese: alcune risiedono nell’inconscio dei tanti che fanno fatica a cambiare ed esplorare strade nuove; altri in centri e ruoli di potere che temono cambiamenti di equilibri e di rapporti di forza.

Un insieme di forze e spinte che convergono nel frenare e rendere faticoso e lento il processo di costruzione di nuove forme di conoscenza e professionalità. La conseguenza è una formazione digitale che troppo spesso si limita all’addestramento su specifici strumenti e applicazioni, insegnando solo “ciò che non si può evitare di usare”.

“Il digitale – spiega Alfonso Fuggetta, Amministratore Delegato e direttore scientifico di Cefriel – non può più essere visto come un optional, esattamente come non è un optional il saper scrivere e la buona educazione. Siamo entrati ormai in una nuova dimensione in cui non ha più senso parlare di cultura digitale, come se fosse in antitesi o in alternativa o complementare alla cultura. È tempo di parlare di cultura ai tempi del digitale”.

Quali sono le dimensioni di intervento sulle quali intervenire? Alcune riguardano competenze e conoscenze digitali che abilitino ogni cittadino a vivere la propria presenza nella società. L’alfabeto digitale può essere considerato il nuovo “imparare a leggere e scrivere”, requisito minimo del diritto di cittadinanza.

Altre, invece, devono far riferimento alla formazione in relazione all’uso del digitale come strumento di cambiamento dei processi, dei ruoli, dei servizi ai clienti e anche delle strategie. Una formazione indispensabile per l’innovazione dei modelli organizzativi.

Infine, la terza grande dimensione delle attività formative è quella relativa alle competenze specialistiche verticali, necessarie ai professionisti della ricerca e dell’innovazione digitale, tra cui Data Scientist, Data Engineer, esperti di architetture Cloud, esperti di Cybersecurity, Designer di interfacce e user experience e così via. Expertise vitali per innovare i prodotti e i servizi e quindi il posizionamento di una impresa sul mercato.

La formazione deve diventare un’occasione strategica di cambiamento della vita delle persone e delle imprese ed è in questo senso che istituzioni e imprese possono promuovere una visione matura del tema, con nuovi linguaggi e strumenti in grado di raggiungere target più ampi. Per esempio, andrebbero incentivati i meccanismi di certificazione delle competenze come gli Open Badge, che in modo trasparente garantiscono la tracciabilità dei percorsi svolti e delle competenze acquisite. Ma è anche necessario promuovere e assicurare serietà e professionalità dei percorsi formativi con la diffusione dell’utilizzo di incentivi alla domanda di formazione che finanzino solo una parte del costo (richiedendo quindi un coinvestimento da parte delle imprese) e che si concretizzino attraverso contratti verso strutture accreditate.

Inoltre, è opportuno associare la formazione a processi di trasformazione delle organizzazioni, delle reti, degli ecosistemi, assegnando ad essa obiettivi specifici e misurabili in termini di impatto sui risultati di business. Questo richiede un’evoluzione nelle modalità di progettazione dei percorsi formativi, dalla scelta “a catalogo” alla coprogettazione con il business, e un’evoluzione significativa delle modalità di valutazione, dalla semplice valutazione del “gradimento” alla valutazione di impatto sui KPI dei processi e dell’organizzazione.

“Alla base di tutto questo – afferma Roberta Morici, responsabile Digital Culture Cefriel e coautrice del white paper – sta il principio per cui formazione è una dimensione permanente della nostra esistenza e deve essere, come tale, vista, pianificata e gestita, specialmente dalle imprese: è il concetto di life-long learning. Uno strumento concreto di formazione per sviluppare le competenze digitali sono i master post-laurea che le imprese offrono ai propri dipendenti, con la formula che alterna studio e lavoro. A breve, per esempio, partirà un master organizzato da Cefriel e MIP per sviluppare le competenze dei professionisti dell’Innovazione Digitale, integrando la preparazione tecnica con quella manageriale”.

Essendo la formazione un processo di life-long learning, diversi sono i protagonisti di questo cambiamento.

Le imprese, per cui la formazione deve diventare un driver di sviluppo (è necessario ribaltare le logiche di assunzione del personale: non ti assumo perché già pronto e formato per ciò che “mi serve”, ma per aiutarti a formarti e crescere), ma anche le amministrazioni pubbliche.

Le scuole e università, che devono impegnarsi nello sviluppo e nell’innovazione della propria missione istituzionale, sapendo creare legami e sinergie con gli altri attori presenti sul mercato, ma anche i centri e le strutture di formazione e innovazione che svolgono una funzione complementare rispetto agli altri attori istituzionali.

Il sindacato, che deve mettere al centro del dibattito il diritto dei lavoratori alla formazione e alla crescita personale e professionale e, infine, lo Stato, promotore e protagonista attivo di politiche che da un lato spingano imprese e singoli ad avviare percorsi di crescita delle conoscenze e competenze e, dall’altro, riconoscano e premino iniziative e risultati che arricchiscono il patrimonio di idee e conoscenze del Paese.

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