Competenze: il “Titanic Italia”

Pubblicato il 30 Mar 2016

2012StefanoUbertiFoppa

Non vogliamo proporvi l’ennesima autoflagellazione sul tema della carenza di competenze nel nostro paese. Né inondarvi di dati che, soprattutto in quest’ambito, sono facilmente “indirizzabili”. Vogliamo invece ragionare sull’evidenza dell’oggettiva difficoltà, che rileviamo incontrando numerose aziende alle prese con una profonda trasformazione digitale del proprio modo di essere impresa, di trovare quei “motori di innovazione” rappresentati, dalle persone e dalle loro competenze.
Innovazione digitale significa ormai tante cose. Certo anche conoscenze tecniche e una familiarità con le tecnologie che l’attuale generazione di persone in azienda, a tutti i livelli, fatica ad avere e soprattutto ad aggiornare. Ma è adesso che si stanno facendo i giochi. È adesso che la rivoluzione digitale ci ha obbligato e aiutato a relazionarci, conoscere, acquistare, comunicare in modo diverso da quello tradizionale, analogico, a cui la maggior parte di noi è sempre stata abituata. È adesso che stanno entrando in azienda persone senza quel “legacy” mentale tipico invece di chi è “immigrato digitale”, il quale inevitabilmente guarda ai nativi digitali e alle loro esigenze di utilizzo informatico con un certo timore. Il timore che i modelli organizzativi stiano cambiando, sull’onda della digitalizzazione, ad un passo molto più rapido della capacità di governance individuale e a livello di impresa.
Sono le forze giovani, quelle formate dalle università e non solo, ad avere l’onore e l’onere, nei prossimi anni, di riuscire a trasformare le organizzazioni, piuttosto che a crearne di nuove in un mondo che, davvero, oggi è, nel bene e nel male, globalizzato.
Ecco allora che si apre inevitabilmente il discorso sul livello di preparazione che le università riescono a garantire in questo scenario digitale che sta connotando alla base alcuni degli elementi fondamentali dello sviluppo economico e sociale del nostro mondo.
È una situazione che, se ci pensate, ricorda un po’ la struttura a silos con cui le aziende si sono sviluppate. Prendiamo le università con i loro differenti ambiti di studio, facoltà e ricerca. Fortissima specializzazione, preparazione di dettaglio ma la declinazione digitale, la formazione di competenze che articolino le conoscenze specifiche con l’innovazione che l’utilizzo digitale può garantire, se correttamente applicato, quelle in larga parte ancora mancano.
I dati per confermare questa mancanza ce ne sarebbero tantissimi. Alcuni li riportiamo subito nelle prossime pagine di questo stesso numero di ZeroUno in “Nuove Prospettive”. Ma giusto un assaggio: la maggioranza degli studenti universitari entra nel mondo del lavoro con le sole conoscenze di “nativo digitale” personali, lungi dall’esserci stata una declinazione formativa nell’applicazione delle tecnologie digitali sulla specifica materia di studio, men che meno finalizzata all’analisi di sviluppo di nuovi modelli di innovazione digital based. Quest’ambito è lasciato soprattutto alla libera imprenditoria giovanile del mondo start up, con tutte le particolari e complesse forme di integrazione tra questo ambito e quello ancora iperstrutturato, dal punto di vista organizzativo e culturale, delle imprese. Siamo, come dimostra indagine europea Digital Economy and Society Index 2016, al 25mo posto su 28 paesi.
Alcune aziende, quelle che se lo possono permettere e che hanno anche un potenziale appealing di ambito lavorativo su uno scacchiere internazionale, fanno scouting di figure professionali a livello globale. Proprio di recente abbiamo avuto modo di parlare con un “innovation officer” di un grande gruppo bancario italiano. La ricerca di profili professionali tra le nostre università italiane, per quanto riguardava la ricerca di competenze digitali da declinarsi sia all’interno dei sistemi informativi sia più orientate al mondo business, finalizzate a creare nuovi modelli di sviluppo economico basati sul digitale, è stato alquanto deludente. A tal punto che l’azienda ha dovuto scegliere di guardare all’estero, con un tour negli Stati Uniti, soprattutto Stanford e Mit, e ha ingaggiato là i profili necessari.
Eppure lo sappiamo tutti che il livello di preparazione scolastica, anche universitaria, è in Italia elevato; lo sappiamo delle nostre grandi potenzialità. Ma non riusciamo a “scaricare a terra”, a “fare sistema”. Non tutti possono essere grandi gruppi internazionali: servono competenze nuove anche alla media impresa italiana, che, altra testimonianza direttamente da noi rilevata, alla ricerca di competenze giovani in ambito It, passando dalle più importanti università italiane, non riesce ad avere risposte adeguate alle proprie esigenze. Due casi diversi, due dimensioni diverse, lo stesso problema: o si ha fortuna con il passaparola e le conoscenze dirette, oppure il bacino universitario oggi, in Italia, non forma profili particolarmente interessanti ai nuovi scenari competitivi. E questo sia rispetto alla ricerca di competenze tecnologiche per i sistemi informativi (che si fanno carico dell’onere di una necessaria e forte integrazione che comunque risente di un approccio tradizionale e che quindi “fagocita” ai propri modelli e conoscenze le nuove leve) sia, fatto più complesso, per quanto riguarda il disegno imprenditoriale strategico declinato sul modello digitale. Tra l’altro questi “digital innovators”, da formare comunque alla specificità del settore di appartenenza e alla cultura dell’azienda, se sono ricercati dalla media impresa italiana, si pone anche un tema di attrattività, cioè di quanto le nostre imprese del made in Italy oggi, al di là dell’eccellenza di prodotto, possono rappresentare realtà appealing per i giovani “architetti del business digitale”.
Il risultato: giovani difficili da motivare, aziende restie all’integrazione e all’innovazione, un “brain drain” (drenaggio di cervelli) dall’Italia verso il mondo che vede i numeri in uscita decisamente superare quelli che, dopo un’esperienza all’estero, decidono di rientrare. Il saldo è sicuramente negativo, anche perché il numero di laureati in Italia, con ottima formazione (e scarsi incentivi sotto il fronte dello sviluppo formativo e del compenso retributivo) è sicuramente superiore della capacità di assorbimento che può avere il nostro tessuto produttivo.
A carte inverse, invece, cioè noi che cerchiamo competenze all’estero, siamo un Paese bellissimo per cultura & pizza, ma ancora drammaticamente in fondo alle principali classifiche di innovazione digitale. È inutile negarcelo: non siamo tra i paesi trainanti né tantomeno attrattivi. Anche perché se le competenze costruite dai giovani non vengono aggiornate e valorizzate nell’appartenere, come imprese e come paese, ad un circuito internazionale di confronto e di competizione, queste competenze si perdono. E chi ha faticato tanto per costruirsele, certamente sente il rischio di perderle, queste conoscenze, venendo a lavorare in Italia. Almeno fino ad oggi è stato così.
Non è che abbiamo di fronte parecchie opzioni: o riusciamo a sviluppare una politica economica che incentri sull’innovazione digitale e sullo sviluppo di nuovi modelli competitivi la propria ossatura di crescita imprenditoriale e di sistema paese, oppure questa “emigrazione di competenze” e di potenzialità che andranno a formarsi all’estero è destinata a continuare, lasciando le nostre aziende alle prese con il difficile compito di muoversi nei mercati globali basandosi ancora e soprattutto sulla nostra proverbiale “flessibilità, capacità e fantasia”. Ma è una provocazione: alla lunga sappiamo tutti che questo non basterà.

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