Quali sono le competenze necessarie alle aziende che vogliono intraprendere il loro percorso di digitalizzazione? Cosa sta accadendo nelle organizzazioni, e in particolare nelle varie business unit e nella divisione IT, che stanno trasformando digitalmente i loro processi? Sono solo alcune delle questioni sollevate nel contesto del progetto Professioni 2020, promosso da Più-Professioni Intellettuali Unite, che si pone l’obiettivo di valorizzare il contributo delle professioni intellettuali allo sviluppo dell’economia e di creare le condizioni per una collaborazione equilibrata tra professionisti, imprese, istituzioni e società civile.
Il progetto consiste in un’esplorazione e analisi qualitativa sulle nuove professioni e sulle competenze che si rendono necessarie per la digitalizzazione, attuate mediante interviste telefoniche (circa una cinquantina) a esponenti aziendali di diverse aziende e workshop di confronto tra gli addetti ai lavori. In particolare, nei giorni scorsi si è svolto l’incontro teso a interpretare i segnali emergenti a questo proposito nell’area IT. Si sono seduti intorno a un tavolo esperti di settore e CIO che, a partire dalle evidenze emerse nell’indagine, hanno riportato le loro opinioni ed esperienze. Questo confronto è particolarmente interessante in quanto, come dichiarato da Claudio Antonelli, presidente di Più: “L’area professionale dell’Ict è esposta al fenomeno della digitalizzazione in duplice chiave: sia come area d’impatto, sia come fornitore di soluzioni basate sulla tecnologia digitale”.
In che modo le aziende affrontano la digitalizzazione?
“Per digitalizzare metodologie e processi – è intervenuto Andrea Provini, presidente di Aused, l’associazione utilizzatori sistemi e tecnologie dell’informazione che ha collaborato all’iniziativa – i CIO devono ovviamente conoscere le tecnologie che possono essere adottate e, d’altra parte, acquisire tutte quelle competenze necessarie per coinvolgere nella digitalizzazione stessa gli altri ambiti aziendali. Ritengo che sul primo fronte sia sufficiente informarsi e studiare; sono invece preoccupato per il secondo aspetto: le decisioni di innovazione ormai non sono più legate solo all’IT, ma riguardano diverse business unit, dal marketing e vendite in poi, e richiedono conoscenze approfondite dei meccanismi di business”.
Secondo quanto registrato dall’indagine, sicuramente la digitalizzazione sta determinando timori e incertezze; ci si è resi conto che è importante cambiare passo e muoversi in fretta, ma troppo spesso questo disorienta e porta a un atteggiamento di attesa (soprattutto nelle realtà più piccole) per capire come si comporteranno gli altri.
Tra le aziende presenti al tavolo di lavoro, ma più in generale in tante organizzazioni in cui si è avviato il cambiamento, i vertici aziendali hanno deciso di raccogliere la sfida della digitalizzazione creando figure (o intere business unit) che si occupassero di digitale, separate dal contesto dell’IT tradizionale.
“In De Agostini – ha raccontato Emanuele Brunelli, Chief technology officer – Digital De Agostini – è stato creato un team a Milano [mentre la direzione IT è a Novara ndr] incaricato di realizzare completamente, in autonomia, dall’idea iniziale alla sua realizzazione, progetti digitali”.
“Anche in Sapio – ha spiegato Riccardo Salierno, CIO del Gruppo Sapio – con i miei collaboratori continuiamo a occuparci degli ambiti tradizionali di gestione delle infrastrutture hardware e software aziendali; mentre abbiamo assunto una persona esterna perché sviluppasse nuovi progetti in ottica digitale”.
“Abbiamo constatato – ha sintetizzato Antonelli – che le aziende si stanno comportando in almeno tre modi diversi: accanto a chi sta alla finestra, alcune, come abbiamo visto, preferiscono tenere divise l’IT tradizionale e l’innovazione altre, invece, fanno delle prove, progetti pilota utili a sperimentare in alcuni ambiti o processi nuovi approcci digitali per poi capire se conviene estenderli ad altre aree”.
È l’idea della necessità di un Chief digital officer separato dall’IT a creare disaccordo tra i partecipanti al workshop: “Può essere che i CIO non presidino tutte le nuove competenze tecnologiche, ma sono forti della loro esperienza nel far funzionare le infrastrutture dell’azienda, nel renderla sicura, un know how fondamentale per innestarvi il nuovo. Credo che il CDO non farà altro che traghettare l’IT in una nuova era e, in quanto tale, sarà una figura che andrà a scomparire in azienda” è, per esempio, la sentenza di Provini.
Le nuove professioni emergenti
Guardando invece ai cambiamenti relativi alle professioni, dall’indagine emerge che diminuiranno le professioni operative, strutturate, basate su procedure, perché sono quelle che possono essere sostituite dalle tecnologie (da quelle di automazione al machine learning). Se cala, dunque, la necessità di questa tipologia di competenze cresce invece quella di skill più tipicamente umani, intraprendenza, senso di responsabilità su risultati e risorse, orientamento al problem solving: in pratica le soft skill di cui sempre più spesso si sente parlare.
Focalizzandosi, più specificamente, sulle figure professionali si evidenzia l’aumento della richiesta di web marketing and communication strategist, social media specialist, così come cybersecurity specialist. Avranno poi sempre più importanza i professionisti dei dati, coloro che si occupano di analizzarli e gestirli, ricavarne valore: “Secondo quello che riscontriamo nelle nostre aziende clienti – ha però sottolineato Roberto Gatti, partner Kpmg advisory – in questo momento, dove esiste un data scientist, egli non siede nella direzione IT, ma per esempio nel marketing, nel procurement. L’IT si limita a fornire i dati e i tool per analizzarli”.
Tutto il tavolo di lavoro è stato concorde nell’affermare la crescente importanza di una professione come quella del data scientist (forse più di tutte le altre), ma fa riflettere il fatto che tra gli addetti ai lavori IT si faccia riferimento alla necessità di una figura che comunque viene collocata al di fuori dell’IT stessa.