La consulenza, sia quella direzionale che quella operativa, ha perso smalto e non attira più come un tempo? Immagine e status dei consulenti non sono più quelli dei primi anni ’80, quando era il ‘mestiere’ di poche centinaia di specialisti, quasi tutti conosciuti per nome e cognome?
Dove sono finiti i guru strapagati della cosiddetta “consulenza strategica”? Oggi la consulenza è pane per un esercito di professionisti il cui lavoro è reso sempre più difficile dal fatto di trovarsi di fronte, dall’altra parte del tavolo, manager ultra informati e preparati. Per non parlare delle gare della PA in cui la consulenza che viene premiata è semplicemente quella che… costa meno.
Queste le domande e i temi che hanno animato un recente dibattito ospitato dal MIP del Politecnico di Milano su ‘La consulenza oggi’. Protagonisti alcuni big di questo settore e, al centro, un volume di Nino Lo Bianco (“Volevo fare il consulente” editore ‘Il Sole 24 ore) e un lungo articolo pubblicato sul tema dal Financial Times.
Il volume di Lo Bianco, Socio Fondatore e Presidente della società di consulenza BIP – Business Integration Partners, e l’articolo del Financial Times delineano il cambiamento di fisionomia che ha segnato negli ultimi anni la professione del consulente. Come ricorda il giornale economico inglese anche lo scarso seguito mediatico che hanno avuto le voci su un possibile merger tra Kearney e Booz & Co (due tra i maggiori player globali della consulenza) è un segno del cambiamento dei tempi e della perdita di richiamo di questo settore, che ha modificato notevolmente la propria fisionomia. È quello che sostiene anche Lo Bianco quando ricorda che “40 anni fa, quando l’attività di consulenza strategica ha messo radici anche in Italia, nel settore ci si conosceva tutti uno per uno, per nome e cognome.” E oggi? Oggi ci sono migliaia di professionisti, attivi in innumerevoli segmenti di mercato con specializzazioni molto spiccate e in uno scenario di turnover continuo, di nuovi ingressi, uscite improvvise e merger tra operatori.
Dai ‘maghi della pioggia’ in poi
È cambiato il numero dei consulenti sul mercato ed è cambiata soprattutto la loro fisionomia. Non c’è più spazio per i ‘maghi della pioggia’, i consulenti che affascinavano il cliente (e su questo fascino basavano la consistenza delle proprie tariffe…) con la loro capacità di meravigliarli con informazioni e notizie esclusive o con le ultime metodologie e buzzword sfornate dalle business school d’Oltreoceano. Oggi accade sempre più spesso che il top e il middle management di medie e grandi aziende clienti si siano formati sugli stessi testi e nelle stesse aule frequentate dai consulenti, mentre certe notizie si trovano sempre più con ricerche appena un po’ sofisticate su Google o iscrivendosi a qualche social network specializzato. Inoltre alcuni servizi di consulenza, un tempo caratteristici delle ‘case’ più affermate, oggi sono diventati vere e proprie commodity, presenti nel catalogo non solo delle società del settore ma anche di qualche big dei servizi IT.
Il valore di questo settore è stato stimato a 300 miliardi di dollari nel 2007, appena prima di una crisi che naturalmente ha impattato anche sulla domanda di servizi di consulenza. Le aziende clienti hanno cancellato o rinviato le spese per consulenza, ridimensionate a livello di ‘spesa discrezionale’, causando nel 2009 un calo di mercato di circa il 15%, senza peraltro scalfire fatturato e profitti dei grandissimi del settore come McKinsey, BCG e Bain.
Nuovi fronti e nuove proposte
In questo scenario perturbato e in cambiamento è chiaro che il mestiere del consulente si deve attestare su nuovi fronti, con nuove proposte e in un differente tipo di relazione con le aziende clienti. Fabio Benasso, Amministratore Delegato Italia e Managing Director Igem (Italia, Grecia, Russia, Europa Dell’Est e Medio Oriente) di Accenture e lo stesso Lo Bianco hanno così provato a mettere insieme qualche ingrediente per la ricetta del ‘consulente ideale oggi’.
Questi ingredienti vanno da un atteggiamento mentale di tipo generale che prevede la capacità di “fare surfing sulle onde, rapide e imprevedibili, del cambiamento” a indicazioni più pratiche che comprendono “l’orientamento al fare e non al promettere”, il saldo dominio della tecnologia, intesa come leva abilitante del cambiamento e la capacità di parlare la lingua del cliente, con la conoscenza delle singole industry e delle relative specifiche dinamiche.
Non manca qualche indicazione proveniente dal mondo delle aziende clienti, come quella di Rodolfo Danielli, imprenditore con un passato nel mondo della consulenza. In un contesto di crisi e di attenzione quasi esclusiva alle operation da parte del management aziendale, Danielli pensa che la consulenza possa portare un fondamentale supporto di metodologie, visioni e approcci per aiutare il management nelle iniziative di cambiamento – strategico, organizzativo e operativo – soprattutto in realtà di maggiori dimensioni, dove il cambiamento, che può coinvolgere decine di migliaia di persone, deve essere pilotato da team che vanno formati e organizzati.
Voci critiche e autocritiche
Questo mondo è sempre rimasto chiuso in se stesso, al punto che ancora oggi è difficile definirne confini e dimensioni. Infatti alla domanda su chi siano oggi i consulenti si sente spesso rispondere che consulente può essere tanto il professionista di una società di consulenza quanto il neolaureato indipendente, l’ex dirigente o il top manager improvvisamente ‘passato dall’altra parte’ o altro ancora. Anche per questo motivo è di fatto impossibile rispondere all’altra domanda su quanti siano oggi i consulenti in Italia, con stime, tutte autorevoli, che ondeggiano tra i 30 e i 40mila professionisti attivi.
E però anche dal cuore di questo mondo chiuso che si è cominciata a levare qualche riflessione critica e autocritica sul ruolo più generale della consulenza in rapporto al cambiamento economico, sociale e culturale del nostro paese.
Fernando Napolitano, Senior Vice President e Amministratore Delegato di Booz & Company Italia, non misura certo verbi e aggettivi nel ricordare le tante “occasioni perdute” negli ultimi 40 anni dal nostro paese: la chimica, l’informatica, la farmaceutica sono in pratica scomparse, lo stato delle telecomunicazioni è preagonico e quello del settore automobilistico in ridimensionamento. Insomma un progressivo degrado economico (di cui la consulenza di alto livello è stata certamente co-responsabile) accompagnato dalla crisi dell’etica nella politica e nel modo di fare business.
E allora, chiede Napolitano, come è possibile parlare di affermazione e di crescita di ruolo della consulenza di fronte a un tale panorama di macerie?
Ma lo stesso Napolitano pensa che la consulenza possa ancora svolgere un lavoro utile nel supporto alla crescita delle Pmi, le sole realtà che, a parte pochi grandissimi brand, caratterizzano in modo positivo la nostra economia. Qui la consulenza può svolgere un importante ruolo per contrastare i persistenti limiti – di familismo, scarsa managerialità, localismo – che minacciano le possibilità delle Pmi di continuare a competere nell’economia globalizzata e per passare dal ‘piccolo è bello’ al ‘grande è necessario’ con tutto quello che ciò può significare in termini di cultura d’impresa e investimenti in competenze.