Come influirà l’ondata di nuove tecnologie sull’occupazione in Italia? La questione è tornata di estrema attualità per le recenti forti evoluzioni della robotica e dell’intelligenza artificiale, e per la digitalizzazione in corso in tutti i settori, incentivata da politiche governative come il Piano Industria 4.0.
In un’economia dominata dai meccanismi della globalizzazione, per temi come questo le specificità del territorio hanno ancora un peso importante. E l’Italia è in una situazione particolarmente complessa, a causa di caratteristiche come la lentezza della ripresa economica, lo scarso numero di nuove imprese digitali (che sono la prima fonte di nuova occupazione) e la bassa integrazione tra il mondo della formazione e quello delle imprese.
Di questi temi si è parlato al primo evento del ciclo “Digital Innovation Talks” degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, che è stato incentrato soprattutto sull’analisi di Umberto Bertelè, Chairman degli Osservatori e professore emerito di Strategia dello stesso Politecnico.
L’impatto dell’automazione sui posti di lavoro non è un problema nuovo, ha detto Bertelè: storicamente si è presentato diverse volte soprattutto in corrispondenza delle precedenti rivoluzioni industriali. Ma in quella in corso, la quarta, la novità è che sono moltissimi i tipi di lavoro potenzialmente interessati, e gli impatti si verificheranno molto velocemente, nel giro di pochi anni. Bertelè ha citato al proposito “The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerisation?”, analisi di Frey e Osborne (Oxford University) secondo cui il 47% dei lavori rientra nella categoria “ad alto rischio”, cioè destinati a essere automatizzati nei prossimi 10-20 anni. E anche un’indagine di McKinsey, che studiando 800 professioni in 19 settori (quelle svolte dall’80% della forza lavoro mondiale), ha scoperto che quelle completamente automatizzabili sono solo il 5%, ma che un altro 60% di queste professioni è automatizzabile almeno per il 30% delle loro attività principali.
Nel lungo termine l’impatto sarà probabilmente positivo sul saldo di posti di lavoro: ne nasceranno di più di quanti ne spariranno. E non solo sul numero di posti: «La digitalizzazione per esempio può spingere a riportare in Italia attività delocalizzate», osserva Bertelè. Nel breve-medio termine però lo scenario più verosimile è una contrazione dei posti – soprattutto quelli tipici della classe media – e un ulteriore aumento delle disuguaglianze e delle differenze retributive che mettono in crisi gli equilibri sociali e politici, e creano come vediamo ormai quotidianamente una forte percezione di pericolo e precarietà nella società.
Per l’Italia, come detto, la situazione è più delicata rispetto ad altri Paesi. Anche perché il fattore tempo è determinante. «Se il processo di digitalizzazione è lento, è più facile per un territorio assorbire gli impatti negativi sull’occupazione, ma per le sue imprese sale il rischio di perdere competitività». Il paradosso quindi è che per evitare la disoccupazione “causata” dalla tecnologia si rischia la disoccupazione da “non-competitività”».
A fronte di questo scenario difficile emergono però anche segnali positivi: nelle imprese italiane sta fortemente aumentando la consapevolezza della rilevanza del digitale, e il mondo politico ha capito la necessità di interventi per rafforzare le infrastrutture digitali, e incentivare gli investimenti in innovazione e la crescita di startup innovative, come dimostra appunto il corpus di misure del Piano Industria 4.0.
Per imprese e Stato quindi si delineano ovviamente ruoli diversi. «L’impresa non è un’istituzione benefica, ma il suo ruolo sociale è fondamentale – ha sottolineato Bertelè -. Deve creare valore, ma in modo sostenibile nel tempo, rispettando regole e sensibilità sociali, e investendo nell’upskilling e reskilling delle risorse umane. Se, come abbiamo visto, l’innovazione digitale crea forti squilibri nelle risorse umane valorizzando alcuni skill e deprezzandone altri, occorre intervenire sullo squilibrio riconvertendo il numero maggiore possibile di persone».
Quanto allo Stato, oltre a promuovere l’innovazione, ha un ruolo cruciale in questa riqualificazione e ricollocazione delle competenze, prevedendo anche ammortizzatori sociali se gli squilibri sono troppo forti. «Oltre agli immediati risvolti umani e sociali, la riconversione dei lavoratori ha una decisiva valenza economica – conclude Bertelè -. Il capitalismo è sopravvissuto finora perché è sempre stato capace di redistribuire, almeno in parte, il valore che genera: non solo a queste persone va data la possibilità di sopravvivere, ma anche quella di spendere per far girare l’economia».