Questo ha generato, secondo la visione del manager di Adp, alcune importanti sfide nell’ambito delle competenze che si ramificano su 5 direttrici:
1) flessibilità della relazione azienda-lavoratore: ieri si parlava di flessibilità del mercato del lavoro e ci si concentrava soprattutto sull’aspetto contrattuale (con alcuni interventi quali la ‘Legge Biagi’); oggi si è più focalizzati sulla flessibilità del rapporto tra l’azienda e il lavoratore e si sta passando al concetto di work/life balance;
2) staffetta generazionale: le precedenti politiche del lavoro erano concentrate sull’allungamento dell’aspettativa di vita (con interventi sui piani pensionistici, per esempio); oggi, proprio in funzione di questo aspetto, ci si deve concentrare sui millennials e su come bilanciare il loro ingresso e il loro contributo in azienda con quello dei dipendenti più ‘anziani’. Stanno prendendo sempre più piede politiche di ‘reverse mentoring’ attraverso le quali non solo i dipendenti anziani formano i nuovi talenti ma anche il contrario: i millennials aiutano il ‘vecchio personale’ a stare al passo con i tempi;
3) internazionalizzazione delle imprese: prima si era molto focalizzati su come controllare e sopravvivere alla globalizzazione, oggi invece si pensa all’internazionalizzazione e a come trarne vantaggi;
4) organizzazione liquida: prima il focus a livello organizzativo era incentrato su modelli molto strutturati, basati su gerarchie e organigrammi (approccio valido finché c’era poco turnover); oggi ci si sta avvicinando al concetto di ‘impresa liquida’ [adattabile di continuo alle variabili esterne ndr] da tempo prospettata dal noto sociologo Zygmunt Bauman;
5) gestione dei talenti: ieri si parlava di gestione del capitale umano in termini di processo, informazioni, modelli di performance… sempre rivolto all’interno però, per rispondere a organizzazioni aziendali strutturate; oggi il focus è indirizzato sul ‘talento’, nell’accezione di colui che nel ruolo che ricopre riesce ad esprimere tutto se stesso.
“È dalla conoscenza delle nuove sfide che si deve partire per riuscire a ragionare sulle competenze necessarie ad affrontarle e trarne valore per l’azienda”, commenta Uva. “A tal proposito, significativo è il dato di una recente indagine del Top Employer Institute, secondo il quale il 65% delle aziende ha difficoltà a trovare manager e professionisti adeguati ad affrontare le nuove sfide del cambiamento [percentuale più che raddoppiata rispetto a tre anni fa: nel 2011 era attorno al 30%. Indagine effettuata nel 2013 su circa 700 aziende in Europa, Cina, Sudafrica, Brasile e Australia – ndr]”.
Uva insiste inoltre su un altro aspetto importante: “La tecnologia fa perdere più posti di lavoro di quanti ne genera, mantenendo il saldo negativo; pensare che si riesca a risolvere tale sfida puntando semplicemente sulla formazione e sulla riqualificazione delle competenze è un’utopia. Credo che la soluzione vada ricercata altrove, cioè nel capire le esigenze del lavoratore e sulla base di queste rielaborare proposte di rapporto tra questi e l’azienda”. Inevitabile tuttavia lavorare sui talenti, ossia sulle capacità delle persone: “Il lato positivo della tecnologia è che apre le porte a mestieri nuovi e non è detto che debbano essere svolti dalle nuove generazioni; la sfida per le aziende è riuscire a mettere le persone nelle condizioni di esprimere il loro potenziale di fronte ai cambiamenti. Attenzione, non significa che il top management debba trovare le ‘ricette giuste’ per la trasformazione del business; deve, piuttosto, trovare il modo attraverso il quale le persone possano supportare al meglio e attuare il cambiamento”. È un approccio totalmente differente rispetto al passato (top down) e può essere attuato anche proprio grazie alla tecnologia, “automatizzando o esternalizzando le attività amministrative (nella gestione del personale), da un lato, e abbracciando pratiche di social collaboration a tutti i livelli aziendali, dall’altro”, conclude Uva.