L’informatica e il broccolo bollito

Tra il sapere informatico e quello umanistico non c’è mai stato uno scambio vero, ma piuttosto una ‘colonizzazione culturale’, l’incedere del primo sul secondo. Cosa accadrebbe se si invertisse la rotta, se l’informatica provasse a lasciarsi contaminare da altri mondi non-matematici?

Pubblicato il 13 Dic 2012

Se ci fate caso, da quando l’informatica ha lasciato i laboratori in camice bianco per avventurarsi in (quasi) ogni settore dell’attività umana, la sua marcia è parsa irresistibile, esponenziale, quasi inevitabile vista la veemenza e il potere di sconvolgimento che si porta in dote.

Parallelamente, l’informatica ha anche dimostrato d’averlo fatto con un’arroganza intellettuale degna dei più stolti paladini dell’esportazione della ‘libertà democratica’ a colpi di cannone. Sicuramente demerito degli informatici perché l’informatica in sé e per sé, pur non essendo di certo neutrale (nessuna tecnologia potrà mai esserlo), di sicuro non è per sua costruzione impermeabile al contesto, anzi tutto l’opposto.

Dunque cos’è successo? Si è formata una solidissima alleanza tra due culture autoreferenziali, impermeabili e fideiste: da una parte le altezzose menti nerd tutti algoritmi e linguaggi-macchina e dall’altra lo spirito imprenditoriale turbo capitalista di matrice anglosassone. Il risultato appunto è una colonizzazione, una conquista unidirezionale dell’informatica entro spazi, culture, valori, modelli, sensibilità totalmente diversi: interi mondi (la medicina, l’arte, l’insegnamento, …) si sono ritrovati a doversi adattare agli strumenti dell’informatica piuttosto che il contrario.

Detto in altri termini non c’è sostanzialmente stato uno scambio, una contaminazione tra saperi – quello informatico (matematico) da un lato e quello più genericamente umanistico dall’altro – ma piuttosto una ‘colonizzazione culturale’ dei primi sui secondi. Senza andare a prendersela al solito con la riforma Gentile del ‘23 del secolo scorso, di sicuro il risultato netto è un impoverimento da entrambi i lati: per le scienze umanistiche che si vedono ‘costrette’ ad adeguarsi a strumenti e modelli concettuali aridissimi in confronto anche solo al potere evocativo del loro linguaggio materiale ma anche e soprattutto per l’informatica e i suoi metodi che nulla o quasi dimostrano di imparare dal contatto con altre discipline.

Ora, avendo fatto dell’informatica la mia professione e coltivando al di fuori del lavoro interessi ortogonali all’It, mi sono ritrovato più d’una volta a contatto con mondi che all’informatica avrebbero parecchio da insegnare. Un esempio su tutti viene da un settore che l’informatica non ha ancora colonizzato se non tangenzialmente: la cucina.

Fino a qualche anno fa per chi voleva regalarsi un’esperienza culinaria di un certo spessore, la strada era pressoché obbligata, ossia ci si doveva preparare a sborsare cifre intorno alle 3-4 volte quelle spese per un pasto in un ristorante medio e spesso sobbarcarsi ben più che una manciata di chilometri lungo strade di provincia. Un fenomeno abbastanza comune anche in altri settori merceologici (ad esempio la moda) dove l’eccellenza tecnica, una progettazione attenta e la manodopera più capace vengono impiegate per produrre beni confezionati con materie prime ricercate, talvolta rare, in ultima analisi molto più costose della media. Un mercato di nicchia, rivolto solo a chi può permettersi di spendere cifre al di fuori della portata della stragrande maggioranza dei comuni mortali.

Ora, per quale ragione questo tris d’eccellenze (tecnica, progettazione, manodopera) debba essere riservata alle materie prime più costose è un (finto) mistero. E’ ovvio infatti che non esiste nessun impedimento logico ad esercitarsi su materie prime più a buon mercato, anzi…. Il ragionamento dev’essere stato più o meno lo stesso se quasi 10 anni fa un giovane ed intraprendente cuoco della provincia milanese, dopo aver girato mezzo mondo a farsi le ossa tra ristoranti stellati ed aziende alimentari, decide di cambiare le regole del gioco rilevando una trattoria di paese per farne un luogo di sperimentazioni culinarie innovative. L’effetto fu quello di un sasso lanciato in uno stagno: un successo pieno, rotondo, per certi versi clamoroso, trascinato dal passaparola dei clienti ed amplificato da una sapiente dose di comunicazione su più livelli.

Depurata dall’attuale sovraesposizione mediatica, l’esperienza di Davide Oldani merita di essere conosciuta non solo perché rappresenta una rivoluzione nel mondo della ristorazione ma proprio perchè si presta benissimo a essere astratta e replicata anche in contesti totalmente diversi dal mondo culinario.

Analizzata un po’ più da vicino la formula Oldani risulta composta da quattro elementi tra loro fortemente sinergici e indispensabili l’uno all’altro per la riuscita del prodotto finale.

Tecnica di alto livello: tecnica non tecnologia all’ultimo grido ossia quelle che da informatici potremmo definire best practices, pattern e architetture collaudate e consolidate, attenzione estrema alla modalità di esecuzione. La cucina d’altronde è descrivibile come una complessa catena di reazioni chimiche e come tale va trattata, esattamente come l’informatica è matematica applicata e non una particolare branca della stregoneria.

Manodopera specializzata: non ci si improvvisa cuochi (nemmeno informatici….), l’esperienza, la motivazione e la competenza sono essenziali. Le variabili in gioco sono moltissime e solo con l’esperienza si acquisisce la capacità di leggere rapidamente il contesto per adattarvicisi in tempo reale.

Materie prime ‘umili’: si può fare un grande piatto (sistema, software,…) non solo con il filetto argentino (costoso, ricercato come lo sono molte soluzioni hardware e software) ma anche con una semplicissima coscia di pollo, le frattaglie, le carote, le rape… (il freesoftware, l’hardware di qualche anno fa, le release più vecchie dei sistemi operativi magari open,….). Un’attenta progettazione, una tecnica adeguata e mani competenti sapranno estrarre tutto il valore e il potenziale anche da ingredienti (apparati) di poco prezzo (ma alto valore-potenziale intrinseco). A costi radicalmente inferiori (Informatici Senza Frontiere docet).

Progettazione attenta, quasi maniacale, a 360°: studio dell’impatto visivo e olfattivo, riduzione degli sprechi, riutilizzo degli scarti (le bucce di pomodoro essiccate e polverizzate per decorare i piatti, il gambo di un broccolo bollito e frullato per diventare la base di un piccolo sformato, le foglie più piccole del sedano sopra una zuppa…) ma anche e soprattutto l’idea di ‘cucina circolare’, della contemporanea presenza nella medesima portata di coppie di opposti, caldo-freddo, dolce-salato, morbido-croccante, come la celeberrima cipolla caramellata con salsa al parmigiano calda e fredda.

Soprattutto quest’ultimo aspetto, dal punto di vista di chi fa informatica, meriterebbe di essere approfondito e non solo perché la progettazione, il tempo, le risorse che le vengono dedicate sono sempre più scarse in favore di una smania di ‘produrre’ in fretta, qualsiasi cosa, purché in fretta. Il potenziale innovativo di una concezione radicalmente nuova come quello della cucina circolare potrebbe risultare altrettanto rivoluzionario: se la contemporanea presenza di coppie di opposti in cucina porta alla realizzazione di piatti equilibrati, azzeccatissimi, appaganti, che effetto potrebbe avere sui prodotti materiali/immateriali dell’It? Quali sono le coppie di opposti equivalenti nell’It? O meglio ancora quali le dimensioni equivalenti che caratterizzano un ‘ente’ informatico? Ad esempio, ragionando in base ad ipotetiche dimensioni tra loro ortogonali, potremmo caratterizzare un oggetto informatico in termini di modello logico (aperto e modificabile – predefinito e chiuso), interfaccia (orientata all’uomo – orientata alla macchina), capacità d’elaborazione (locale – distribuita), adattabilità funzionale (dinamica al contesto – immodificabile), piattaforma esecutiva (intercambiabile – fissa),…

Come si presenterebbe un oggetto informatico che mostrasse contemporaneamente tutte queste coppie di opposti? Difficile a dirsi, soprattutto se si parla solamente di software, anche se a ben vedere gli smartphone di ultima generazione in qualche modo sembrano seguire una filosofia di progettazione simile a quella ipotizzata. Se così fosse il loro innegabile successo sarebbe un ottimo argomento a favore, se non altro per fare qualche esperimento.

Se una portata progettata e realizzata secondo questi principi contiene tutti i liquidi necessari alla sua consumazione (non è necessario bere al pasto per aiutarne la deglutizione, al massimo acqua e vino aiutano a ‘resettare’ il palato tra una portata e l’altra), potrebbe essere la volta buona che per usare un’applicazione non sarà più necessario ingurgitare litri di caffè (o di calmanti, a seconda dei casi) per poter fare il proprio lavoro.

Potremmo battezzarla informatica pop, un modo nuovo per fare un’informatica migliore, meno arrogante, per cercare insomma d’imparare facendosi contaminare, smettendola una volta per tutte di colonizzare stupidamente e a senso unico.

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