Un programma volto a diffondere le competenze digitali tra gli studenti che si stanno formando a svolgere lavori che non hanno alcuna relazione con l’ICT. Si parte con 1.000 studenti su 3 università pilota (Università di Pisa, Università Federico II di Napoli e Università di Milano-Bicocca), con l’obiettivo di estendere l’iniziativa ad altri atenei: è Orizzonte digitale, il programma education sviluppato da VMware e dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI). Lo hanno annunciato in una conferenza stampa congiunta Ferruccio Resta, Segretario Generale della CRUI nonché Rettore del Politecnico di Milano e Raffaele Gigantino, Country Manager di VMware Italia (nella fotografia, da destra a sinistra, Raffaele Gigantino, Ferruccio Resta, Daniele Fichera, Valeria Cagnina e Francesco Baldassarre).
Quelle che mancano non sono le competenze digitali di base
Già nel 2013 la Commissione Europea metteva in guardia sul fatto che nel 2020 il 90% dei posti di lavoro avrebbe richiesto competenze digitali. Al 2020 manca una manciata di settimane e la nostra scuola (ma in questo siamo in buona compagnia) non si sta seriamente occupando della questione perché, attenzione, non stiamo parlando dell’utilizzo di ebook al posto di libri cartacei o di qualche lavagna interattiva da inserire nelle classi o dell’utilizzo di strumenti di collaboration. La Generazione Z, i cui primi nati stanno entrando adesso in università, non manca certo di queste competenze: sono iperconnessi, multimediali, multitasking dalla nascita e gli strumenti digitali di base sanno benissimo come utilizzarli.
Le competenze di cui stiamo parlando si chiamano analytics, machine learning, cloud computing, intelligenza artificiale, big data, security, il tutto declinato anche in modalità mobile: se le evidenze di tipo quantitativo sono quanto mai fondamentali nell’attività medica, è pensabile che un medico che si sta laureando non sappia utilizzare strumenti di analytics? E che dire degli avvocati? Anche qui, non stiamo parlando di come adeguarsi al processo telematico, ma di come, attraverso l’utilizzo di software di AI sia possibile migliorare l’efficienza dell’analisi dei documenti per uso legale, catalogandoli come rilevanti per un caso particolare. Per non parlare degli strumenti di data visualization, la cui magia sta nella capacità di rendere una determinata analisi comprensibile e attraente. Chi può avvalersi di questi strumenti? Tutte le professioni alla cui base c’è la trasmissione di informazioni e conoscenza: dal giornalista, al divulgatore scientifico o storico, solo per citare gli esempi più scontati.
L’iniziativa Orizzonte Digitale prevede la realizzazione di incontri formativi, seminari e lezioni didattiche che si terranno presso le principali Università italiane e che coinvolgeranno studenti, professori e personale accademico, mettendo a sistema il know-how consolidato di VMware nelle tecnologie digitali in ambiti come il cloud, il networking e la sicurezza e il digital workspace. Gli studenti potranno così attenere le certificazioni su tecnologie innovative; il piano esatto è in via di definizione.
La collaborazione tra pubblico e privato per colmare il gap
“Quella della formazione digitale è una problematica di cui c’è chiara consapevolezza ai più elevati livelli istituzionali, come dimostra il manifesto per un Repubblica digitale dove il Team per la Trasformazione Digitale ha messo al primo posto proprio l’educazione digitale”, ha detto Gigantino, ricordando come in quell’occasione vi sia stato un esplicito richiamo alla collaborazione tra pubblico e privato: “E come azienda internazionale che opera in Italia abbiamo voluto dare il nostro contributo proprio partendo dall’università. È un progetto ambizioso, ma ritengo la collaborazione fra le aziende e il mondo universitario sia indispensabile per fornire ai giovani le competenze richieste oggi da un mondo del lavoro che si sta profondamente trasformando. Una sinergia fondamentale per sostenere lo sviluppo socio-economico del nostro Paese che, ora più che mai, ha bisogno di una forte trasformazione digitale per essere competitivo sul mercato globale.”
“Dobbiamo formare professionisti che abbiano competenze digitali indipendentemente dalla loro professione – ha ribadito Resta – e la collaborazione con le aziende è fondamentale”. L’università ha il compito di preparare per un determinata professione: è evidente che le competenze digitali fanno parte del corso di studi di uno studente di informatica, ma se stiamo parlando di uno storico, di un sociologo, l’università non ha le risorse per affiancare la formazione digitale alle parti costitutive della disciplina: “Sarebbe una scelta dispendiosa e poco funzionale, mentre potersi avvalere di capacità che si trovano nel mercato, nelle aziende che sono all’avanguardia su queste tecnologie consente di raggiungere l’obiettivo”.
Resta ha poi sottolineato come sia importante che il soggetto pubblico dell’accordo sia la CRUI: “Mi piace definire la CRUI un’infrastruttura del paese, un’infrastruttura che coglie le differenze perché le università sono lo specchio delle regioni dove sono insidiate e quindi sono molto diverse tra loro. Riteniamo di avere un ruolo nel cogliere le differenze ed è importante stipulare una serie di accordi che sappiamo non possono andare bene per ogni situazione, ma che possano declinarsi nel modo più adatto a ciascuna realtà”.
Il ruolo dell’Università nello sviluppo del Paese
“La digitalizzazione è un passo fondamentale per la crescita e lo sviluppo del Paese. In questo percorso, il ruolo dell’Università è centrale, non solo nello sviluppo di nuove tecnologie, ma anche nella definizione di un approccio culturale ed etico adeguato al cambiamento”, ha detto il Segretario Generale della CRUI lasciando poi la parola a Daniele Fichera, Senior Consultanti di FPA, che ha illustrato i dati emersi da una ricerca, commissionata a FPA da VMware e CRUI, per comprendere il ruolo del sistema universitario per lo sviluppo territoriale.
Nella ricerca la presenza universitaria nelle varie città è stata correlata con i principali indicatori di sviluppo socio-economico (tasso di occupazione e valore aggiunto pro-capite) e con alcuni indicatori specifici che aiutano a misurare il contributo all’innovazione sul territorio: diffusione di servizi ad alto contenuto di conoscenza (HITS), attività produttive ad alta intensità tecnologica (HIT), diffusione di startup e PMI innovative, domanda di lavoro qualificato.
“L’analisi effettuata – ha spiegato Fichera – conferma sostanzialmente l’assunto che una significativa presenza universitaria è tra i fattori che concorrono positivamente ai livelli di sviluppo economico territoriale, alla diffusione dell’innovazione e alla qualificazione competitiva delle attività produttive”.
Come era facilmente prevedibile le tre grandi città metropolitane (Milano, Roma e Napoli) risultano in testa alla graduatoria per tutti gli indicatori, subito seguite da altre grandi realtà come Bologna, Firenze, Padova e Parma. “Ma è interessante rilevare il caso di realtà mede e o medio piccole come Trieste, Pisa e Siena che vantano una storica forte presenza universitaria e dove si rilevano dati di eccellenza per quasi tutte le altre variabili facendo intravedere un modello di sviluppo microterritoriale nel quale l’università non solo contribuisce, ma svolge un ruolo centrale ‘fertilizzando’ l’intero contesto provinciale”.
Una situazione che non si ripete nella macroripartizione meridionale: “Anche se emergono casi significativamente positivi come quelli di Bari e Cagliari, dove appare riconoscibile l’impatto della presenza universitaria, la ricerca rileva che non sempre la significativa presenza universitaria riesce a sopperire all’assenza o debolezza di altri fattori di sviluppo materiale e immateriale”.
Ecco quindi, e questa è la conclusione condivisa anche da Resta e Gigantino, che diventa indispensabile sviluppare tutte le possibili occasioni di contatto tra università, imprese innovative e l’ambiente circostante affinché vi sia un impatto positivo sul territorio in termini di crescita e di diffusione dell’innovazione.
“La correlazione tra presenza universitaria e sviluppo del territorio e non ha importanza se l’una è la conseguenza dell’altro o viceversa, quello che importa – ha concluso Resta – è che si innesca un circolo virtuoso con un impatto positivo su tutte le variabili”, ha concluso Resta.
Nulla è impossibile
L’incontro si è chiuso con la testimonianza di Valeria Cagnina e Francesco Baldassarre, fondatori di OFpassiON, azienda di “robotica educativa”.
18 anni compiuti a gennaio, occhi e mani sempre in movimento, Valeria sprizza energia con ogni parte del suo corpo e racconta la sua storia decisamente poco convenzionale: “Ho iniziato a interessarmi alla robotica quando avevo 11 anni giocando con una pianta digitale che interagiva con l’ambiente circostante tramite sensori in un CoderDojo [movimento no-profit internazionale nato in Irlanda nel 2011 con lo scopo di avvicinare i bambini ed i ragazzi all’informatica attraverso la realizzazione di club di programmazione gratuiti ndr]. Mi è così piaciuto che ho chiesto ai miei genitori di comprarmi una scheda Arduino e seguendo un corso su YouTube ho costruito un robot, semplice ma che ho realizzato tutto da sola”. E dato che saper programmare a 11 anni non è proprio una cosa comune, viene nominata Digital Champion per la città di Alessandria, dove vive, viene invitata, a 13 anni, a parlare al TEDx Milano Women e, “dopo avere stolkerato con email tutti i professori del MIT”, come Valeria stessa ha detto ridendo, a 15 anni ha trascorso 3 mesi a Boston per seguire il progetto Duckietown: “Dovevamo realizzare delle piccole paperelle robot capaci di muoversi in una città con l’obiettivo di semplificare tutorial per studenti universitari. Al MIT e girando per vari lavoratori, ho scoperto che si può imparare divertendosi e non annoiandosi seduti ai banchi di scuola”.
Poi l’incontro con Francesco Baldassarre che, da brillante studente liceale si è trovato all’università senza riuscire a capire perché, nonostante gli sforzi, i risultati non arrivavano: “Volevo diventare un informatico, ma dopo 6 mesi ho rinunciato, mi ero reso conto che non avevo la giusta forma mentis, che mi mancava il metodo scientifico di studio, che il liceo, nonostante fosse un liceo scientifico, non mi aveva insegnato”. Ecco allora che Francesco fa un grande lavoro su se stesso, “mi sono re-impostato”, come dice, si iscrive nuovamente e si laurea in 3 anni per poi approdare al mondo del lavoro, in un ufficio di consulenza. È presto insoddisfatto ed è qui che, dopo aver letto un articolo su di lei, incontra Valeria: “Avevo 25 anni, fresco di laurea, con un lavoro e mi sono messo nelle mani di questa ragazzina”. Valeria aveva già iniziato a costruire la sua scuola e i due da quel momento diventano soci, oggi hanno 10 collaboratori (ma l’idea è di ampliare il progetto ad altre città in Italia e di espandersi all’estero) e fanno corsi che vanno dalla scuola materna alle superiori, fino al team building per le aziende e ai corsi per insegnanti basando il sistema di apprendimento sulla metodologia learn by doing: “La scuola può essere divertente e noi facciamo imparare attraverso il gioco e il divertimento – dice Valeria – basandoci su 10 regole, la prima è: niente è impossibile”. E dato che questa è una vera e propria regola di vita per Valeria, l’obiettivo è fondare una vera e propria scuola riconosciuta. Non possiamo che augurare “in bocca al lupo” a lei e a Francesco.