L’aspetto collaborativo del problem solving è quello meno esplorato di una competenza trasversale che è oggi più che mai fondamentale in un contesto ricco di incertezze in cui i nodi da sciogliere si presentano in modo spesso imprevedibile e repentino. È vero che “non sentirsi soli di fronte a situazioni complesse” è una frase fatta ed abusata, che rischia quindi di perdere concretezza, ma si può scegliere di renderla una reale dichiarazione di intenti strategica. Come? Trasformandola nella consapevolezza che gli altri possono davvero aiutarci a rinforzare il nostro approccio al problem solving e comportarci di conseguenza, coinvolgendoli anche nella pratica. Lo sostiene Alessandra Panaccione, Organizational Psychologist, elencando i reali e concreti vantaggi di questa scelta “in termini di velocità nell’analisi del problema e anche di valutazione delle soluzioni, ad esempio, perché da fuori si vedono possibilità di cambiamento e di risoluzione che da dentro non si immaginano – spiega – Valorizzando il contributo sociale al problem solving si favorisce inoltre l’abbassamento del rischio di errore e si compie una meravigliosa scoperta che la maggior parte di noi fa già durante la scuola: si può copiare”. Nel cercare la soluzione ad un problema, ciò significa far tesoro di una esperienza vissuta da altri e apprendere attraverso di essa, riconoscere attorno noi qualcosa di utile e riproporlo nel proprio contesto: “nell’ambito delle regole di legalità e di etica è una capacità molto preziosa”.
Panaccione è intervenuta al recente Richmond IT Director Forum, una convention di 3 giorni che solitamente raduna a Rimini decine di CIO, IT manager, Direttori IT e rappresentanti del mondo dell’offerta ma che quest’anno, a causa dell’emergenza sanitaria, si è tenuta interamente online.
Come e perché saper riconoscere un problema complesso
Prima di affrontare un problema, cercando di farlo con un approccio aperto al contributo altrui, secondo Panaccione è fondamentale soffermarsi su una apparentemente sottile ma al contrario profonda differenza tra due tipologie di problemi, quelli complicati e quelli complessi. I primi “sono ‘cum plicum’, dal latino, con pieghe: sono rappresentabili come un tessuto stropicciato che si può ‘stirare’ fornendo una spiegazione e identificando una causa che, concettualmente, è unica proprio come la soluzione. Sono problemi che si adattano bene ad un tipo di pensiero logico-lineare che ci aiuta a muoverci in una dimensione verticale causa-effetto – spiega Panaccione – molti sono gli scienziati che hanno a che fare con problemi complicati a cui a volte dedicano la loro intera vita e non si deve pensare che siano più facili dei problemi complessi, sono diversi. Quel che è certo è che se affrontiamo un problema complesso come se fosse complicato, non ne usciamo vincenti”.
I problemi complessi sono “cum plexum”, sono “come una rete di pescatori ingarbugliata, con una serie di nodi e tanti collegamenti e nessi fra questi nodi che ne compongono l’essenza e che li rendono multicausa e multisoluzione”.
È proprio in questo genere di situazioni che emergono maggiormente i vantaggi di un approccio al problem solving che tenga conto del contributo degli altri. Esistono alcuni trucchi e, a detta della stessa Panaccione, se se ne sceglie uno solo, quello che più è lontano dal nostro modo di fare, e lo si mette in pratica cercando di portarlo nella propria quotidianità, si riscontrano evidenti benefici nella risoluzione di problemi complessi.
Da autoreferenziali a referenti, valorizzando l’interdisciplinarietà
Una delle condizioni migliori per declinare in modo collaborativo il problem solving e venire a capo di un problema complesso è quella di costruire un team formato da specialisti di discipline molto diverse chiamati a collaborare nella ricerca di una soluzione. “Ciascuno di noi nel gruppo può valorizzare massimamente il proprio background professionale ma mettendo in luce una particolare sezione del problema perché siamo sensibili solo ad alcune specifiche variabili – spiega Panaccione – un approccio interdisciplinare invece ci dà la possibilità di comporre meglio la realtà nella sua complessità e nella sua varietà”.
Lo switch necessario affinché ciò avvenga è quello dall’essere autoreferenziali all’essere referenti. “Nella prima condizione, il focus resta su ciò che già sappiamo, replichiamo il nostro punto di vista senza aprirci al nuovo e spendiamo tutto il nostro tempo a convincere gli altri”. C’è però un altro modo di utilizzare il proprio sapere secondo Panaccione, ed è quello messo in atto dai referenti, ovvero persone molto preparate e competenti ma consapevoli di non essere “tuttologi” e quindi che pongono tante domande, interessate a comporre una risposta condivisa che tenga conto anche del sapere altrui. “L’autoreferenzialità abbassa la curiosità” e anche le probabilità di trovare una soluzione a problemi complessi, “se vogliamo invece aumentare lo spettro di efficacia del nostro problem solving collaborativo ci è più utile prestare attenzione a chi ha modalità di ragionamento e opinione diversa dalla nostra, ci fa vedere l’angolo cieco della macchina. È difficile imparare a farlo perché è un comportamento controintuitivo – ammette Panaccione – perché lavorare con persone con cui si ha affinità è più gradevole”.
Identificare i punti di leva, rinunciando alle semplificazioni
Di fronte ad un problema complesso, è fondamentale fare molta attenzione ai nessi tra i nodi che lo compongono e anche in questo caso il poter contare su più punti di vista aiuta ed evita la frustrazione di trovarsi di fronte a situazioni in cui possiamo vedere i tanti fattori in gioco ma non le loro interazioni che spesso ci sfuggono e che possiamo solo immaginare. “Il pensiero lineare in questi casi non basta, serve un pensiero divergente e la capacità di avere un focus sui punti di leva, quelli su cui agire per avere un riverbero su tutto il sistema” afferma Panaccione. In questo caso la difficoltà sta “nel rinunciare alla ricerca del colpevole o di una causa specifica, nel rinunciare a semplificare perché di fronte ai problemi complessi abbiamo bisogno di ragionare, di ragionare in un’ottica multiscenario creando piani non solo A ma anche B e C, pronti ad abbandonare quello A se non funziona”.
Diventare moltiplicatori di scenari, chiedendosi “e se ?”
Non affezionarsi ad un solo possibile scenario di supporto alla spiegazione della situazione che stiamo affrontando per mettere in campo quadri interpretativi variegati e molteplici è un passaggio difficile ma decisivo per il problem solving in situazioni complesse. “Nella quotidianità abbiamo bisogno di attribuire significato a ciò che vediamo, ci diamo da soli delle risposte con la fretta di liquidare il problema e ci imbrigliamo in una lettura univoca e schiacciata della situazione che non è l’unica possibile e non è detto che sia quella che utile per trovare soluzioni valide”. Panaccione suggerisce di diventare “moltiplicatori di scenari” allenandosi a chiedersi sempre “e se?” per accogliere e raccogliere le interpretazioni che altri danno della stessa situazione, per concedersi di avere dubbi e condividerli.
Anche in questo step di problem solving di problemi complessi emerge l’importanza del contributo altrui ma non solo, anche la “capacità di dire ‘non lo so’ e sospendersi in momento interpretativo e di ragionamento, di porsi domande e dubbi senza farsi prendere dalla frenesia di essere risolutori. È una capacità più che mai utile soprattutto di fronte a situazioni così nuove e sfidanti come quelle che oggi ci troviamo ad affrontare”.