È da almeno dieci anni che si va sostenendo che la richiesta di professionisti nell’Ict supera di molto la disponibilità. E questa sembra essere, nonostante la crisi economica, la percezione radicata e perdurante degli analisti di settore, in qualche misura condivisa anche dai responsabili delle organizzazioni Ict, interne o esterne alle aziende.
Sembra in particolare che il fenomeno, definito dagli addetti ai lavori come “skill shortage”, riguardi gli specialisti di Internet, Java, reti, e poi di Soa, cloud computing, Web 2.0 e via nel mare magnum delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, declinando i paradigmi imperanti del momento. Ci si concentra cioè sulle specifiche competenze tecniche, e questo anche nel caso in cui la figura professionale debba avere anche connotazioni differenti, probabilmente prevalenti, come quando ad esempio ci si riferisce a specialisti di sicurezza.
È dunque lo skill shortage tecnologico il vero problema? Ossia il limite all’evoluzione, all’efficacia e all’efficienza dei sistemi informativi aziendali? Per dare una risposta occorre forse partire un po’ (non troppo) da più lontano, riprendendo concetti ben noti e chiari a un Cio, ma non sempre in primo piano quando si tratta di applicarli alle risorse umane dell’Ict.
Un primo punto è come l’Ict si pone nell’organizzazione aziendale, e come d’altra parte l’azienda la percepisce. Per ribadire l’ovvio, le tecnologie sono solo fattori abilitanti, anche quando trainanti il business, e devono dunque essere sempre viste come un supporto ai processi e ai servizi dell’impresa, inserendosi in un quadro che vede l’impresa sostanzialmente come fornitrice di servizi ai suoi clienti e che, per poterlo fare, richiede servizi e prodotti dai propri fornitori. Uno dei fornitori chiave è senz’altro l’Ict, interna o esterna che sia.
Fornire un servizio di qualità
Ma cosa caratterizza un servizio? Secondo Peter Drucker, definito “L’uomo che inventò il management”, “La qualità di un prodotto o servizio non è ciò che il fornitore vi mette, ma è ciò che il cliente ne ricava e per cui è disposto a pagare. Un prodotto non è di qualità per il fatto di essere difficile da produrre o perché è caro. Ragionare così è solo indice di incompetenza! I clienti pagano soltanto ciò che è loro utile e fornisce loro un valore. Null’altro costituisce la qualità”.
O, scomodando ancora un classico, per Richard Normann il servizio deve essere visto in una “logica di produzione di valore per il cliente, considerato l’unica fonte di business per l’azienda (ovvio, no?) e il punto di partenza di ogni strategia.”
E allora, riprendendo i grandi in modo più scolastico ma completo, una definizione possibile è questa: “Un servizio rappresenta il risultato che un soggetto (il Cliente) ottiene in relazione a un bisogno grazie a un sistema ordinato di risorse, persone e mezzi impiegato da un altro soggetto (il Fornitore) al quale formula una domanda. Questo senza preoccuparsi dei costi correlati e del rischio affrontato, che comunque riguarda il lato fornitore.
La definizione appena data è densa di significati impliciti, ma tuttavia di basilare importanza anche per quanto attiene al nostro tema. L’Ict sarà in grado di soddisfare il proprio cliente solo se, grazie ai servizi ottenuti, egli stesso sarà in grado a sua volta di soddisfare i propri clienti, e così via perché la catena continua. Il servizio sarà allora percepito come valore, per il quale vale pagare un prezzo, solo se rende possibile un aumento delle prestazioni dell’azienda, rispettando sia le necessità funzionali, sia quelle cosiddette non funzionali, (quali la facilità d’uso, la sicurezza, la disponibilità, la continuità, ecc.), non sempre facili da esplicitare correttamente ma altrettanto rilevanti.
Il mitico allineamento tra Ict e Azienda
Un altro punto è la tanto usata buzzword “allineamento tra Ict e Azienda”, scontata e nel contempo un po’ disattesa, che ha a che fare con la valutazione dell’interazione globale che si deve venire a instaurare tra l’Ict e l’impresa (vedi figura).
Figura 1 – L’allineamento strategico ed operativo
(cliccare sull’immagine per visualizzarla correttamente)
Tra Ict e business devono cioè essere garantite le dinamiche che assicurano la necessaria sinergia, a livello di indirizzi strategici e di servizi, alle funzioni operative. Non importa da dove si parta, i servizi Ict saranno erogati in modo adeguato se saranno efficaci ed efficienti nel supportare le esigenze del’azienda, nel competere sul mercato e nel rispondere in modo consapevole dei risultati ottenuti. Per far questo l’Ict deve insomma avere e trasmettere al proprio interno a tutti i livelli una chiara visione del proprio ruolo, delle finalità e degli obiettivi.
Ultimo ma non ultimo, se non si vuole che l’Ict sia vista solo come un male necessario, e perciò da ridimensionare il più possibile negandole ogni valenza strategica, occorre correggere il tiro, se necessario, e confermarne continuamente il posizionamento strategico.
La schematizzazione di Venkatraman (“Beyond Outsourcing: Managing IT Resources as a Value Center”) ha qualche anno ormai, ma resta sempre valida (vedi figura).
Figura 2 – L’It come centro di valore
(cliccare sull’immagine per visualizzarla correttamente)
Passare da Centro di Costo quantomeno a Centro di Servizi è il passo che certamente i Cio hanno perseguito e spesso ormai raggiunto. Ma la collocazione ideale di una moderna organizzazione Ict a supporto del business va nella direzione di Centro di Investimento, ossia di una struttura in grado di cogliere e concretizzare le opportunità di miglioramento che offre la tecnologia. Va da sé che caratterizzarsi in questo modo richiede politiche di sviluppo, di supporto e di investimento ben precise.
Profili professionali e professionalità
Torniamo al punto di partenza, cioè alle competenze e alle professionalità da valorizzare, da sviluppare o da ricercare. Sono dunque proprio solo quelle tecnologiche?
Per una definizione di professionalità si può ricorrere al Grande Dizionario della Lingua Italiana (“il Battaglia”): “Condizione o caratteristica personale di chi esercita una professione o un mestiere con particolare riferimento al buon livello del lavoro effettuato, alla competenza, all’efficienza ed al rendimento del lavoratore”. Parafrasando e riducendo all’essenziale: “Il saper fare in un contesto dato”.
Saper fare, dunque, ma nel contesto. E il contesto comprende una pluralità di componenti: il settore di business, le strategie e il posizionamento dell’azienda, il contesto organizzativo, l’architettura informatica, e quant’altro. Un contesto in cui le competenze strettamente tecnologiche sono sicuramente necessarie, ma non sono le sole a essere determinanti.
Lo recepisce la classificazione dei ruoli e dei profili informatici definiti dallo standard europeo Eucip, che si ingegna nel bilanciare conoscenze di base e capacità comportamentali, attraverso una schematizzazione in qualche misura innovativa, ignorando volutamente le conoscenze tecnologiche e ambientali specifiche, così eterogenee e spesso effimere.
Aggregati in macro-aree, i 22 “profili elective” di Eucip (tabella 1), promossi anche da Cnipa, oggi DigitPa, sono descritti in modo dettagliato e caratterizzati anche tenendo conto dell’’incidenza prevalente di ciascuno di essi nel ciclo di vita dei servizi Ict: la pianificazione (Plan), con enfasi sulle capacità relazionali, e la realizzazione (Build) e l’esercizio (Operate), con incidenza decisamente maggiore delle competenze tecniche.
Merito di Eucip è quello di non pretendere di costituire una copertura esaustiva, e di non addentrarsi nei particolarismi tecnici, lasciando al contesto aziendale il compito di complementare e declinare i profili secondo le necessità. Si ha tuttavia talvolta la sensazione di una classificazione comunque influenzata dal contesto delle “nuove” tecnologie, perdendo un po’ di vista che quelle “ereditate” sono quasi sempre il supporto irrinunciabile per l’attuazione di quelle nuove.
Per inciso, questo fa un po’ il paio con la tendenza a dimenticare che in comparti rilevanti, come il credito e la finanza, il Cobol (o meglio l’intero impianto mainframe) è ancora quello portante, e non si vede cosa possa sostituirlo. E che saper disegnare uno schema di database almeno in terza forma normale è ancora fondamentale, anche lavorando con ambienti visuali e con linguaggi a oggetti. Non tutto si può ricondurre insomma alla scrittura di un po’ di codice e all’uso di tool e componenti.
Per quanto riguarda le conoscenze tecniche, Eucip rimanda alle certificazioni tecniche dei vendor, che sono certamente un riconoscimento delle nozioni acquisite, necessarie ma, come i quiz per la patente, non sufficienti ad attestare il “saper fare”, forse nemmeno di quella specifica tecnologia.
Viene spontaneo rifarsi alla provocazione di Steve Mc Connell: “Le persone che hanno scritto qualche programma al liceo ritengono talvolta che scrivere programmi a livello professionale sia più o meno la stessa cosa, solo in scala più grande. Non è lo stesso tipo di lavoro. Posso creare una piccola casetta per il mio cane in poche ore, nel mio giardino, e può farmi persino vincere il primo premio all’esposizione canina del paese. Ma questo non implica che abbia acquisito l’esperienza necessaria per costruire un grattacielo… I programmatori (e le aziende!) che sottovalutano la differenza, lo fanno a loro rischio.” (McConnell, Teach Programming Principles, not Tools and Tips).
Il fattore 10 (o 100)
Ma si può rincarare la dose. Per molte delle professionalità di cui si sta parlando esiste un elemento che deve essere considerato con attenzione. Appare infatti sempre valido il classico studio sulla produttività individuale nell’Ict di Sackman, Erikson e Grant di tanti anni fa, confermato in diverse forme e contesti da altri fino a giungere a Barry Boehm e ai tempi nostri.
Gli studi riportano che, per esempio, tra programmatori professionali con una media di 7 anni di esperienza si possono riscontrare rapporti nel tempo di codifica sino a 20 a 1; e nel debugging anche di 25 a 1; e di velocità di esecuzione del programma di 10 a 1. Questo senza alcun maggiore apporto di qualità. E se questo è vero per una competenza in fondo ben caratterizzabile come quella del programmatore, cosa dire per tutte le altre? Ci si possono aspettare differenze ancora più rilevanti, ovviamente.
Dal modello CoCoMo, COnstructiveCOstMOdel (ancora Boehm), limitandosi al fattore esperienza e capacità del personale, si evince che, rispetto a capacità nominali “standard”, lo sforzo speso nella costruzione di un’applicazione si riduce a circa un terzo utilizzando risorse eccellenti, e triplica utilizzando risorse meno qualificate. E non è solo un fatto di conoscenze tecniche.
A questo punto rispondere alle domande “chi devo selezionare?”, “come deve essere la squadra?”, “come valuto i collaboratori e i consulenti?”; “come programmo i percorsi professionali e di carriera” diventa ancor più difficile. Sono domande che si pongono i Cio, magari i responsabili delle risorse umane, ma più di rado, ahimè, i responsabili degli acquisti, per i quali un programmatore è un programmatore e il suo costo deve essere quello, anzi meno se possibile. Dimenticando che un programmatore 10 volte più produttivo di un altro non costa 10 volte tanto!
Ma se la tendenza oggi imperante, a partire dal settore pubblico, è quella di tagliare indiscriminatamente i costi, senza curarsi dell’effetto sui livelli attuali e futuri di competitività delle nostre organizzazioni Ict, e non solo, ricadiamo in pieno nel tragico quadrante dell’Ict visto come centro di costo. E quindi al suo inevitabile depauperamento e ridimensionamento.
Affrontare il vero skiIl shortage
Definito innanzi tutto il posizionamento attuale e a tendere dell’Ict in azienda e chiariti gli obiettivi, un passo importante è ponderare la strategia di sourcing, in essere o a tendere, e stabilire i ruoli e le tecnologie chiave, individuando di conseguenza le professionalità e gli skill già disponibili all’interno, quelli da sviluppare o inserire, e quelli a cui affidarsi esternamente.
In tema di tecnologie, per esempio, se si utilizza in modo consistente un mainframe, non si può sottovalutare quanto risulti essenziale, non solo per l’esistente ma anche come snodo vitale per gli sviluppi futuri, mantenere e rinnovare gli skill. A questo proposito è indicativo quanto riportato nel recente survey annuale The Arcati Mainframe Yearbook 2010, che riporta come, in particolare presso i maggiori consumatori di Mips, l’incremento annuo di potenza sia decisamente superiore agli aumenti dei costi correlati.
Per le nuove leve, punto di partenza sono comunque la cultura e la formazione di base. Le scuole, le università, le certificazioni vanno benissimo, ma l’informatica aziendale ha molte sfaccettature che non si possono evidenziare nell’iter di studi. I giovani vanno perciò inseriti correttamente. Anche se è vero che oggi imparano rapidamente a usare tool e linguaggi, il mestiere non è solo quello. Hanno bisogno, come accade in tante altre professioni, di fare apprendistato o, come si diceva una volta, di “andare a bottega”, essere seguiti e indirizzati nel miglior uso delle tecnologie e non solo in quello. Perché il modo con cui si è inseriti e ciò che si apprende fin dall’inizio può costituire l’impronta che guida tutto lo sviluppo professionale. Ciò significa anche che occorre avere delle figure di riferimento capaci di essere dei “maestri”, e di aggiornarsi essi stessi di continuo, per capire e farsi capire.
La qualificazione o la riqualificazione attraverso la formazione in aula resta sempre una delle leve, se opportunamente indirizzata. Tanto più quando si può approfittare anche delle opportunità di finanziamento pubblico (regionale, comunitario ecc.). Ma occorre anche qui procedere con avvedutezza; i corsi non sono tutti uguali e il prezzo non può essere l’unico elemento di discriminazione. Occorre che nei corsi si ritrovino l’uno e l’altro, ossia la componente specifica del “fare” e quella del “saper fare”, le nozioni e la cultura, le tecnologie e il contesto. Se non tutti in uno stesso corso almeno in un percorso formativo.
Se poi si programma un corso in house, può non essere tanto sensato farvi partecipare il maggior numero di persone possibile anche se non hanno i prerequisiti (tanto il costo è lo stesso) oppure richiamare di continuo i partecipanti ad altri impegni di dubbia urgenza. Significa svilire l’impegno e demotivare le persone.
Esiste dunque da noi lo skill shortage?
La sensazione è che esista davvero, ma non sia la mancanza di persone con competenze tecniche specifiche, in particolare sulle nuove tecnologie, ma sia piuttosto un fatto di qualità delle competenze, e sia casomai di quantità solo in alcuni ambiti specifici, nuovi e non nuovi. Non resta a questo punto che da riflettere sulla composizione della propria squadra Ict, nelle sue componenti (interna o esterna che siano), e sul percorso da seguire perché possa dare, adesso e nel tempo, il miglior servizio e i migliori risultati. Puntando a un maggior valore, che può anche significare un minor costo reale.
Tabella 1 – Le aree e macroaree Eucip
(cliccare sull’immagine per visualizzarla correttamente)
* Ruggero Nocerino è Manager e Consulente Master in Adfor, società specializzata in consulenza direzionale, consulenza tecnologica e formazione.