Sebbene ci sia ancora molta strada da fare, è sempre più chiaro alle Risorse Umane il potenziale che il digitale può offrire nel campo dell’attrazione, della gestione e del mantenimento dei talenti. I recenti dati pubblicati dall’Osservatorio Hr Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano (Titolo del report: “Hr Business Enabler: dati, tecnologie e competenze per valorizzare il capitale umano”; fonti della ricerca: survey rivolte ai Responsabili Hr di aziende soprattutto grandi e medio-grandi di diversi settori operanti in Italia; studi di caso per approfondire i progetti più significativi; workshop con i sostenitori della Ricerca ed Executive della Direzione Hr per discutere e valutare le analisi svolte) confermano questo trend: il 61% delle organizzazioni italiane prevede per il 2016 un budget dedicato a nuove iniziative digitali nell’ambito delle risorse umane (figura 1); in particolare, gli investimenti riguarderanno i processi di valutazione delle performance dei lavoratori (previsti nel 53% dei casi), la formazione (51%) e la ricerca e selezione del personale (51%). Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio, intervistata da ZeroUno per condividere delle riflessioni sui risultati della ricerca, si è soffermata su questi tre aspetti:
- per quanto riguarda l’ultimo dei temi elencati, ha sottolineato il crescente utilizzo dei social media (per esempio Linkedin o Monster) per segnalare le posizioni aperte e selezionare i candidati (non a caso il 20% del campione prevede l’introduzione nella Direzione Hr di un Social Media Recruiting Specialist);
- a proposito invece della diffusione degli strumenti per la valutazione delle performance, la ricercatrice ha puntato l’attenzione sulle modalità con cui il processo viene gestito: “Le aziende più evolute sono passate da un approccio in cui la valutazione delle performance viene fatta una volta all’anno coinvolgendo solo i manager responsabili del lavoratore, a sistemi dove esistono più momenti di confronto (utili a correggere in corsa le eventuali problematiche rilevate) e dove vengono coinvolte come ‘valutatori’ più persone, con diversi ruoli, che lavorano con il dipendente”.
- Come sottolinea Crespi, per facilitare questa evoluzione e gestirne i processi, le aziende ricorrono a tecnologie di performance management, base indispensabile su cui costruire un percorso di cambiamento che è, però, anche culturale: le finalità per cui queste soluzioni devono essere adottate è infatti quello non di aumentare il controllo in quanto tale, ma di consolidare nelle persone, come suggerisce la filosofia dello smartworking, un approccio al lavoro basato sulla valutazione (e sull’auto-valutazione) dei risultati e degli obiettivi e su una maggiore responsabilizzazione dei lavoratori.
Dall’e-learning al Digital Learning…
È tuttavia il tema “formazione” quello che le ricerche dell’Osservatorio hanno maggiormente approfondito quest’anno: i budget destinati a questo ambito non subiscono particolari variazioni rispetto al 2015 e tuttavia cresce l’interesse verso nuovi canali e approcci formativi, con un ripensamento delle attività in chiave digitale; le tradizionali piattaforme di e-learning si arricchiscono e si integrano con nuovi strumenti e modelli: “Si sta diffondendo quello che abbiamo definito Digital Learning – spiega Crespi – un concetto più esteso di quello di e-learning: quest’ultimo prevede sì l’utilizzo di piattaforme digitali, ma in modo poco interattivo e tendenzialmente unidirezionale; il primo cerca invece di affiancare alla tradizionale ‘videolezione’ iniziative di interazione e collaborazione (per esempio commento dei contenuti, confronto tra le persone durante le lezioni, gamification) e iniziative orientate a migliorare la fruibilità dei contenuti (per esempio rendendoli disponibili tramite mobile app)”. Per quanto l’effettiva diffusione di strumenti e iniziative di Digital Learning sia ancora limitata – solo il 17% del campione utilizza per la formazione il digitale in modo pervasivo e trasversale – la percentuale delle imprese che li ritengono più rilevanti rispetto alla formazione tradizionale passa dal 38% (ultimi 3 anni) al 75% (prossimi 3 anni) e il grafico della figura 2 mostra che le aziende hanno intenzione di investire in questa direzione attraverso l’introduzione delle varie tecnologie a supporto. Un trend importante, secondo Crespi, soprattutto se si pensa a come il Digital Learning sia utile non solo allo sviluppo delle competenze, ma anche come strumento di coinvolgimento ed engagement. “L’obiettivo finale è quello di portare all’interno dell’impresa lo stesso approccio che usiamo nella nostra vita privata dove, se vogliamo imparare come si fa qualcosa, sfruttiamo diverse fonti: tutorial, informazioni sui siti, post su Twitter di persone che si intendono di quella determinata disciplina e via dicendo”. Secondo Crespi, questo scenario deve replicarsi nell’azienda, attraverso strumenti in grado di supportare agilmente una simile varietà di canali. Il modello ideale a cui tendere dovrebbe essere quello del “continuous learning”: “La formazione cessa d’essere relegata a specifici momenti ben definiti – spiega Crespi – ma diventa qualcosa che avviene continuamente, in modo ‘naturale’, spontaneo, quasi senza che le persone se ne accorgano; è l’agilità, la flessibilità e la qualità degli strumenti che abilita un simile modello”. A riprova dell’interesse delle imprese per questo ambito evolutivo, il fatto che il 13% del panel abbia persino previsto l’inserimento nell’organico della Direzione Hr di un Digital Learning Specialist, con il compito di progettare, gestire e monitorare percorsi e piattaforme per la formazione digitale.
Hr Big data e Analytics: trovare i campi di applicazione
Un altro tema di forte interesse approfondito nella ricerca del Politecnico è quello degli Hr Big data e Analytics. Il 41% delle aziende prevede l’avvio di progetti in questo ambito nel 2016, ma attualmente il loro utilizzo è ancora molto limitato: “Sono diffusi solo gli strumenti di analisi descrittivi, ovvero che effettuano analisi sui dati limitandosi a offrire una rappresentazione della situazione attuale, utilizzati dal 47% delle aziende del campione, ma non quelli predittivi e prescrittivi”, afferma Crespi: i primi, che analizzano i dati storici per prevedere risultati futuri, sono presenti nel 24% delle aziende; gli altri, che vanno oltre, sviluppando e confrontando diversi scenari e identificando i possibili legami-causa effetto tra i dati, addirittura non hanno trovato riscontro in nessun caso della ricerca.
Quali sono le ragioni di questo ritardo? Le principali risultano essere le barriere legate alla gestione dei processi (timore di un costo elevato delle soluzioni, per il 54% del campione, ed elevati tempi di implementazione, 40%), l’esigua richiesta da parte del business di questo tipo di strumenti (31% dei rispondenti) e la scarsa conoscenza delle possibili applicazioni e dei benefici ottenibili, segnalato come freno dal 51% del panel: “Non ci sono abbastanza esempi concreti, abbastanza casi d’uso noti”, commenta a questo proposito Crespi, che quindi sottolinea: “In questo caso potrebbero essere i technology provider a rimediare portando all’attenzione delle aziende più esempi sui modi in cui l’analisi dei dati può generare effettivi vantaggi”. Lo stesso report del Politecnico cita alcuni casi applicativi: monitorare le interazioni social tra colleghi può permettere di identificare i focal point di competenza all’interno dell’organizzazione indipendentemente dai ruoli gerarchici; il monitoraggio del livello di attenzione dei discenti durante le diverse modalità di formazione on line incrociato con le valutazioni degli stessi permette di comprendere quali sono i format più efficaci; correlare dati di performance con determinate caratteristiche della persona fornisce insight utili al processo di selezione del personale al fine di inserire figure maggiormente affini alla cultura aziendale.
E tuttavia, come spiega Crespi, nonostante i freni, la cultura dei dati nelle imprese e la consapevolezza del loro valore sta crescendo; lo dimostrano anche alcuni risultati legati all’ambito delle competenze emergenti: il 57% delle aziende dichiara che quelle legate all’“Hr Big Data e Analytics” sono destinate a diventare più importanti rispetto a quanto lo fossero due anni fa.
Proprio questa aumentata consapevolezza sul versante dell’analisi dei dati, accanto a quella descritta in ambito Digital Learning, può contribuire al consolidarsi del ruolo dell’Hr come “Business Enabler”, aiutandolo a uscire dall’isolamento che in certi casi lo caratterizza per svolgere una effettiva funzione di supporto al business, come si legge nel Report dell’Osservatorio: “La Direzione Hr da accentratrice di processi di gestione e sviluppo del personale deve supportare i manager nel creare le migliori condizioni lavorative per valorizzare le proprie persone, portandoli persino a gestire autonomamente alcuni processi di solito svolti dalla stessa Direzione Hr”.