Si possono considerare lavoratori “smart” coloro che godono di un certo livello di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare per svolgere il proprio lavoro, per cui, a orari fissi e a postazioni stabili in ufficio, subentrano nuove modalità di autogestione della propria attività. Per monitorare la diffusione di queste forme di lavoro la School of Management del Politecnico di Milano ha realizzato una survey, condotta dall’Osservatorio Smart Working, focalizzata su quattro aspetti in particolare legati al passaggio verso modelli di “lavoro intelligente”:
- la riprogettazione degli spazi fisici;
- l’emergere di nuove modalità di lavoro basate su tempi e spazi lavorativi flessibili;
- il configurarsi di uno “spazio virtuale di lavoro” generato dalla diffusione delle tecnologie digitali;
- l’evoluzione della cultura aziendale che deve supportare il passaggio a questi nuovi modelli abbracciando principi diversi e favorendo la responsabilizzazione del lavoratore.
La ricerca ha coinvolto in Italia oltre 200 tra Direttori Hr, Cio ed Executive delle Line of Business, oltre ai 1.000 utenti finali (impiegati/quadri/dirigenti) intervistati in collaborazione con Doxa, uno dei partner sostenitori della ricerca, per analizzare il fenomeno dal punto di vista dell’utenza.
Perché occuparsi di queste forme di “lavoro flessibile”?
I vantaggi generati dall’adozione di tali modelli, sono già una realtà in molte aziende di successo e i benefici che ne derivano sono stati provati e quantificati. Per citare un esempio, secondo un report del 2011 dell’associazione no-profit WorldatWork, impegnata nella promozione del ruolo delle risorse umane in ambito aziendale, l’adozione del telelavoro, che permette di gestire la propria attività a distanza tramite l’uso delle tecnologie di telecomunicazione, ha generato un aumento medio della produttività dei dipendenti del 25%, con punte del 50%; dati Istat 2012 alla mano, se aumentassero i telelavoratori del 10% nelle aziende con più di 500 dipendenti, si otterrebbe un beneficio in termini di costo del lavoro pari a 1,7 miliardi di euro mensili, senza contare i risparmi economici derivati dalla possibilità di avere uffici più piccoli, e quelli ambientali frutto della riduzione degli spostamenti in auto e conseguente diminuzione delle emissioni di CO2. Inoltre, come confermano le aziende che l’hanno sperimentato, il telelavoro abbassa il tasso di assenteismo e aumenta la soddisfazione del personale che riesce meglio a gestire l’equilibrio tra vita lavorativa e privata.
Ciò nonostante, quello che la ricerca del Politecnico ha evidenziato è che, nonostante i vantaggi comprovati e l’innovazione tecnologica che offre terreno fertile al cambiamento, il cammino non è privo di barriere, soprattutto legate a una cultura aziendale ancora acerba la quale, per quanto ricettiva in termini teorici, resta timorosa nel tradurre questi principi in fatti.
La direzione non può comunque essere diversa per le imprese che non vorranno rinunciare ai vantaggi che lo smartworking offre per il business e per la vita privata dei lavoratori.
Lo spazio fisico: gli uffici cambiano forma
Il 39% dei Responsabili Hr intervistati dichiara che nella propria azienda sono già stati definiti dei piani di riprogettazione del layout degli uffici per creare ambienti aperti, flessibili e orientati alla collaborazione; il 64% del campione ha già fatto negli ultimi anni cambiamenti in questo ambito. Le tipologie di intervento sono diversificate: il 47% ha aumentato la dimensione degli uffici, soprattutto passando ad ambienti open space; il 36% ha puntato sulla maggior configurabilità della postazione di lavoro (scrivanie e pareti mobili, free standing ecc.); seguono iniziative legate alla creazione di aree di relax e destinate alla collaborazione/confronto (38% e 34%) e a postazioni condivise utili a ridurre i costi e garantire una maggior flessibilità organizzativa (28%); in certi casi, per facilitare le attività lavorative, sono stati persino introdotti sistemi di localizzazione automatica dei dipendenti attraverso smart card, cellulari o altri dispositivi wireless (12%). Gli ostacoli ai cambiamenti in questo ambito sono legati solo a fattori quali l’inadeguatezza delle strutture attuali e la necessità di ingenti investimenti per i lavori di ristrutturazione. Non ci sono invece particolari freni culturali: il cambiamento è più semplice da gestire dal momento che la ristrutturazione degli spazi fisici rende più agili le attività e favorisce la collaborazione e le relazioni trasversali, ma lo fa senza stravolgere i principi di controllo tradizionali: i flussi di lavoro si riconfigurano ma restano “in ufficio”.
La flessibilità è ancora per pochi e spesso solo parziale
Diverso il discorso per quanto riguarda il passaggio verso forme di lavoro flessibili che concedano al lavoratore la libertà di scegliere, posto un dato obiettivo aziendale, quando lavorare, dove lavorare e, anche in termini di Byod, che device usare (come lavorare). Soltanto il 5% del campione, secondo la ricerca effettuata sugli utenti finali, ha tutte queste autonomie; molti altri sono smartworker solo in parte, e possono essere definiti “solo” lavoratori non tradizionali (un 57% del campione, in opposizione ai tradizionali, il restante 43%).
L’analisi ha proposto la suddivisone dei lavoratori “non tradizionali” in tre tipologie:
- Distant or mobile worker, flessibili nella scelta degli spazi di lavoro. Sono il 26% del campione analizzato; di questi tuttavia in molti sperimentano la mobilità ma all’interno della sede di lavoro; più fortemente svincolato per una fetta significativa di tempo lavorativo è solo il 3% degli utenti, che opera da casa, e il 15%, che lavora all’esterno della propria sede. Le reazioni registrate in chi ha adottato questo nuovo modello di lavoro sono incoraggianti: il 69% dei lavoratori afferma di essere più flessibile, e soprattutto un 50% circa di essere più efficiente, più efficace e più soddisfatto e motivato;
- Flexible Worker, autonomi nel personalizzare l’orario di lavoro in base alle proprie esigenze (sia come orario di inizio e termine dell’attività lavorativa, sia come durata complessiva); è una flessibilità concessa al 58% del campione in particolari occasioni, ma solo a un 25% in modo completo; positive le reazioni di questi ultimi, che, similmente ai “mobile worker”, risultano altrettanto produttivi e soddisfatti;
- Adaptive Worker, ovvero colui che sceglie i device con cui lavorare. Sono il 37% del campione. Di questi, il 20% usa strumenti aziendali scelti personalmente e il 17% utilizza i propri device personali. Nuovamente notevole l’impatto sugli utenti soprattutto in termini di efficienza (dichiara sia aumentata il 62%) ed efficacia (56%).
Considerando le percentuali da un lato – per cui sembra che molti sperimentino la flessibilità ma solo a tratti e pochi la vivano quotidianamente – e i benefici riscontrati dall’altro, l’impressione è che troppi lavoratori siano ancora “ingabbiati” in modelli tradizionali, senza la possibilità di poter disegnare il profilo del proprio lavoro godendo dei benefici che ne derivano: “I vincoli legati alle modalità di lavoro attuali – dice Alessandro Piva, responsabile della ricerca dell’Osservatorio Smart Working – non permettono spesso di soddisfare esigenze prioritarie per i lavoratori, come l’equilibrio fra lavoro e vita privata, l’autonomia professionale e la possibilità di collaborare. Condizioni che costituiscono fattori motivanti, di importanza paragonabile alla retribuzione e alla possibilità di carriera”. La grande maggioranza delle persone si dichiara infatti disponibile ad adottare modelli di lavoro innovativi, quando la Direzione Hr è riuscita a proporli; i benefici rilevati dalle aziende sono notevoli (figura 1) e lo stesso top management ne riconosce l’utilità, soprattutto, ma non solo, in termini di valorizzazione dei talenti e di innovazione (molto rilevante per il 65% del campione). Eppure il percorso è rallentato; come chiariremo meglio, le motivazioni vanno legate soprattutto a una immaturità della cultura aziendale nel predisporsi al cambiamento, e questo nonostante l’enorme potenziale che offrono le tecnologie Ict di generare uno spazio di lavoro alternativo a quello tradizionale che possa in parte sostituirsi a quello fisico, offrendo la “base virtuale” su cui “costruire concretamente” questi nuovi modelli di lavoro.
Lo spazio virtuale come leva di cambiamento
Le tecnologie chiave per supportare lo smartworking appartengono, in ordine di diffusione, a quattro aree: Collaboration: sistemi di conferencing, instant messaging, Voip, condivisione e co-editing di slide e documenti ecc.; Mobile Workspace: per consentire l’accesso a contenuti e strumenti in mobilità (palmari, tablet, smartphone, new tablet); Cloud Computing: per la fruizione di applicazioni e risorse infrastrutturali in modalità as a Service; Knowledge Management, Social Network & Community: per il supporto alla creazione di relazioni e conoscenza tra le persone (social network, forum, blog, idea management, ecc.). Di questi elencati, gli strumenti di collaboration sono già presenti nell’80% delle aziende e le altre percentuali scalano non oltre il 46%. Inoltre, aumenta il numero di persone che utilizza a fini professionali anche strumenti web di tipo consumer e si diffonde il fenomeno del Byod: nel 59% delle aziende si usano per lavorare device privati. Tuttavia va notato che solo nel 19% dei casi questa è una possibilità offerta alla maggioranza delle persone; d’altra parte, più in generale, solo il 13% delle aziende ha sviluppato modelli in grado di supportare lo smartworking attraverso la creazione di spazi virtuali completi per la gran parte dei dipendenti. L’Ict certamente offre grandi potenzialità, ma l’aumento degli smartworker non può prescindere dalla loro diffusione a un numero sempre maggiore di lavoratori.
La necessità di nuove policy organizzative
I freni al diffondersi dello smartworking non sono dunque né tecnologici né legati alla produttività nel lavoro che, a detta delle aziende che hanno accettato la sfida, aumenta sensibilmente. Certo, come ha sottolineato Paolo Fortuna, Direct Touch Sales Manager di Alcatel-Lucent Enterprise, dal punto di vista tecnologico va considerata la criticità della gestione dei dati sensibili, messa a dura prova dalla mobility, per cui resta premessa fondamentale lo studio di soluzioni di sicurezza adeguate. La barriera più forte sembra tuttavia essere di carattere culturale: timori soprattutto legati alla difficoltà di coordinamento e collaborazione tra i dipendenti (motivo di limitata flessibilità per il 56% dei direttori Hr), alla perdita di controllo da parte del management (50%) e all’isolamento delle persone (47%).
Aprirsi allo smartworking non è un gesto semplice: impone un cambiamento a livello di mentalità, di organizzazione del lavoro, di gestione delle risorse umane; si tratta di sganciarsi dai principi di obbedienza e di controllo basati su una impostazione gerarchica dei ruoli aziendali, per passare a un sistema basato sulla responsabilizzazione del lavoratore e l’accettazione della sua indipendenza nella gestione della propria attività. Il concetto di controllo rimane comunque ma avviene solo sulla base del conseguimento o meno degli obiettivi che gli sono affidati: lo smartworking presuppone un “atto di fiducia” verso il lavoratore e l’impostazione di un nuovo assetto organizzativo basato su forme di collaborazione orizzontale; di fatto, chiama in causa ambiti diversi oltre a quelli Ict. Come ha commentato Salvatore Nappi, Top Clients & Public Sector – Marketing di Telecom Italia: “lo smartworking è un modello antropologico, sociologico, ecologico, solo incidentalmente tecnologico”.
Rispetto alla difficoltà nell’affrontare tale cambiamento, c’è un altro dato interessante che ci fornisce la ricerca: molti dei lavoratori non tradizionali appartengono a particolari categorie; per esempio sono quadri, dirigenti e alti funzionari che dovendosi relazionare con l’estero devono necessariamente avere orari inusuali, oppure commerciali che non possono non essere mobili per frequentare la propria clientela. Pare insomma che l’adozione di forme di lavoro non tradizionali sia una scelta ancora in parte ancorata a situazioni di necessità, e non sia vista invece come una alternativa, attuabile in nome dei vantaggi di cui si è detto.
Basti pensare che solo 18% dei lavoratori non tradizionali ha meno di 34 anni: i più giovani, che tipicamente hanno affinità con la tecnologia e potrebbero facilmente sfruttarne le potenzialità, sono ancora spesso esclusi; come ha suggerito Franco Dradi, Enterprise Sales Director di Research In Motion, si tratta probabilmente di una discrasia legata a un processo in fase di avvio. Ma è forse proprio nel riuscire a compiere questo passaggio, da “soluzione obbligata” a “libera scelta”, e nel coinvolgere anche i giovani e chi ha ruoli aziendali non di vertice, la vera sfida lanciata dallo smartworking.
Smart Working Awards, i vincitori
L’evento del Politecnico di Milano “Smart Working: ripensare il lavoro, liberare energia” è stata l’occasione per premiare i vincitori dello “Smart Working Awards”, quattro aziende che si sono distinte nella riprogettazione dello spazio e delle modalità di lavoro secondo i nuovi modelli “smart”. Primo premio ad Amadori e Sace, menzione speciale a Heineken Italia e Vodafone.
Gruppo Amadori si è distinto per il “Progetto GoMobile”: “per la sensibilità e l’attenzione dimostrata nell’affrontare il tema della consumerizzazione e del Byod in azienda, attraverso un progetto allineato con le strategie di business e in grado di soddisfare le esigenze di sicurezza e integrità dei dati”. Sace ha invece ottenuto il premio “per l’approccio integrato che ha permesso la gestione a 360 gradi di tutte le iniziative realizzate per i dipendenti nel contesto lavorativo e non solo, attraverso progetti di telelavoro, supporto alla mobilità urbana e di formazione riguardo alla salute”. Riguardo le menzioni speciali: per Heineken Italia premiato il progetto “Heineken Smart Work” – legato al ripensamento dello spazio e delle modalità di lavoro che ha tra l’altro permesso la definizione di un possibile modello di telelavoro – e il progetto “Mobile Working” di Vodafone, grazie a cui si è sperimentato sulla rete di vendita l’utilizzo di nuove tecnologie e strumenti di collaboration a supporto del mobile working.