Secondo i dati Istat ricordati in un recente evento organizzato dal Politecnico di Milano e P&G "Valorizzare ed attrarre i talenti: una sfida per l’Italia”, i laureati emigranti nel decennio 2000-2010 rispetto al periodo 1990-2000 sono raddoppiati; dei giovani tra i 18 e 35 anni – dichiarazione del presidente dell’Istat Enrico Giovannini – uno su 3 aspira a uscire dai confini nazionali. L’Italia, grande importatrice di profili professionalmente modesti, ha perso invece la capacità di attrarre cervelli; e se nel decennio 2000-2010 le regioni con la maggiore emigrazione erano Sicilia e Calabria, nel 2011 hanno primeggiato Lombardia e Veneto, a sottolineare che il fenomeno non è da considerarsi solo come effetto del maggiore tasso di disoccupazione che colpisce endemicamente il Sud Italia.
Le ragioni della fuga e le possibili soluzioni sono stati tra i temi al centro del dibattito, sviluppato a partire dalla premessa che per “talento”, come ha suggerito Pietro Guindani, Presidente di Vodafone Italia, bisogna intendere “un traguardo a cui tutti i lavoratori possono tendere nell’intento di dare valore alla propria attività e all’organizzazione a cui appartengono”.
Ma perché, allora, i "virtuosi" scappano? Secondo quanto emerso dall'incontro, prima di tutto esiste il fattore economico e contrattuale: rispetto all’estero, soprattutto nei primi anni, le retribuzioni in Italia sono inferiori (la media dopo due anni di lavoro è di 28 mila euro lordi annuali) e i contratti offrono prospettive incerte; anche i tempi per “fare carriera” sono più lunghi e master e dottorati non cambiano questa situazione, poiché il mondo del lavoro, troppo scollegato da quello universitario, non percepisce questi titoli come garanzia di maggiore professionalità.
Se queste partenze fossero seguite da un ritorno in patria, il problema sarebbe relativo: “Che ci siano molti giovani italiani che vanno all’estero è un bene: espone la futura classe dirigente a esperienze internazionali anche precoci – ha commentato Gianluca Spina, Presidente di Mip-Politecnico di Milano -. Il problema è che il nostro Paese ha una bassa capacità di riportarli a casa: secondo l’Aire [il registro ufficiale della Farnesina relativo agli italiani residenti all’estero, ndr] la propensione al rientro è solo del 50% e nel segmento dei ricercatori è inferiore al 30%; di questi, va aggiunto, solo una percentuale più bassa rimpatria effettivamente poiché, oltre l’intenzione, serve una opportunità reale”. Proprio queste opportunità sembrano mancare; risulta infatti non facile per le aziende italiane proporre stipendi competitivi, anche per ragioni fiscali: “Esiste un delta difficile da colmare, anche perché tra gli oneri contributivi richiesti in Italia e quelli richiesti all’estero spesso ci sono dei differenziali importanti” ha osservato Andrea Colombo, Group Hr Director di Fincantieri. Non aiuta certo l’immagine estera dell’Italia, che influenza negativamente anche i giovani stranieri che avessero intenzione di trasferirsi, già scoraggiati a livello pratico dai lunghi iter burocratici. Le singole iniziative non mancano, ma per cambiare il panorama serve un dialogo molto più forte tra i tre mondi dell’Università, delle imprese e dello Stato: solo una triangolazione tra queste forze può creare da un lato dei percorsi formativi più funzionali al mondo del lavoro che favoriscano l’inserimento e la permanenza dei giovani, dall’altro delle politiche che alleggeriscano la burocrazia e siano d’aiuto alle imprese per proporre un’offerta allettante ai talenti stranieri e italiani espatriati; soprattutto, serve un piano a lungo termine, perché solo la continuità che finora è mancata potrebbe generare un cambiamento.