Talenti italiani: viaggio all’estero di sola andata?

È raddoppiato il numero di laureati italiani che partono per cercare lavoro all’estero. Tra le maggiori cause della fuga di “cervelli”, stipendi più bassi e poche prospettive di carriera; solo una strategia a lungo termine, studiata in collaborazione da università, aziende e Stato, potrà invertire questo trend. Cosa si sta facendo?

Pubblicato il 15 Mag 2013

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Secondo i dati Istat ricordati in un recente evento organizzato dal Politecnico di Milano e P&G "Valorizzare ed attrarre i talenti: una sfida per l’Italia”, i laureati emigranti nel decennio 2000-2010 rispetto al periodo 1990-2000 sono raddoppiati; dei giovani tra i 18 e 35 anni – dichiarazione del presidente dell’Istat Enrico Giovannini – uno su 3 aspira a uscire dai confini nazionali. L’Italia, grande importatrice di profili professionalmente modesti, ha perso invece la capacità di attrarre cervelli; e se nel decennio 2000-2010 le regioni con la maggiore emigrazione erano Sicilia e Calabria, nel 2011 hanno primeggiato Lombardia e Veneto, a sottolineare che il fenomeno non è da considerarsi solo come effetto del maggiore tasso di disoccupazione che colpisce endemicamente il Sud Italia.

Pietro Guindani, Presidente di Vodafone Italia

Le ragioni della fuga e le possibili soluzioni sono stati tra i temi al centro del dibattito, sviluppato a partire dalla premessa che per “talento”, come ha suggerito Pietro Guindani, Presidente di Vodafone Italia, bisogna intendere “un traguardo a cui tutti i lavoratori possono tendere nell’intento di dare valore alla propria attività e all’organizzazione a cui appartengono”.

Ma perché, allora, i "virtuosi" scappano? Secondo quanto emerso dall'incontro, prima di tutto esiste il fattore economico e contrattuale: rispetto all’estero, soprattutto nei primi anni, le retribuzioni in Italia sono inferiori (la media dopo due anni di lavoro è di 28 mila euro lordi annuali) e i contratti offrono prospettive incerte; anche i tempi per “fare carriera” sono più lunghi e master e dottorati non cambiano questa situazione, poiché il mondo del lavoro, troppo scollegato da quello universitario, non percepisce questi titoli come garanzia di maggiore professionalità.

Gianluca Spina, Presidente di Mip-Politecnico di Milano

Se queste partenze fossero seguite da un ritorno in patria, il problema sarebbe relativo: “Che ci siano molti giovani italiani che vanno all’estero è un bene: espone la futura classe dirigente a esperienze internazionali anche precoci – ha commentato Gianluca Spina, Presidente di Mip-Politecnico di Milano -. Il problema è che il nostro Paese ha una bassa capacità di riportarli a casa: secondo l’Aire [il registro ufficiale della Farnesina relativo agli italiani residenti all’estero, ndr] la propensione al rientro è solo del 50% e nel segmento dei ricercatori è inferiore al 30%; di questi, va aggiunto, solo una percentuale più bassa rimpatria effettivamente poiché, oltre l’intenzione, serve una opportunità reale”. Proprio queste opportunità sembrano mancare; risulta infatti non facile per le aziende italiane proporre stipendi competitivi, anche per ragioni fiscali: “Esiste un delta difficile da colmare, anche perché tra gli oneri contributivi richiesti in Italia e quelli richiesti all’estero spesso ci sono dei differenziali importanti” ha osservato Andrea Colombo, Group Hr Director di Fincantieri. Non aiuta certo l’immagine estera dell’Italia, che influenza negativamente anche i giovani stranieri che avessero intenzione di trasferirsi, già scoraggiati a livello pratico dai lunghi iter burocratici. Le singole iniziative non mancano, ma per cambiare il panorama serve un dialogo molto più forte tra i tre mondi dell’Università, delle imprese e dello Stato: solo una triangolazione tra queste forze può creare da un lato dei percorsi formativi più funzionali al mondo del lavoro che favoriscano l’inserimento e la permanenza dei giovani, dall’altro delle politiche che alleggeriscano la burocrazia e siano d’aiuto alle imprese per proporre un’offerta allettante ai talenti stranieri e italiani espatriati; soprattutto, serve un piano a lungo termine, perché solo la continuità che finora è mancata potrebbe generare un cambiamento.

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