Dalla ricerca al business. Il momento si avvicina

Le prospettive che le tecnologie cognitive presentano ai vendor It sono allettanti e c’è da attendersi lo sviluppo di tutto un nuovo filone d’offerta, del quale Ibm è antesignana. Ma portare i risultati dei centri di ricerca e sviluppo nel mondo del lavoro, specie con proposte dirompenti come quella di cui si tratta, presenta delle incognite. Ne parliamo con chi per primo sta affrontando il problema.

Pubblicato il 06 Mag 2014

Per quanto allo studio da tempo, il concetto di cognitive computing che abbiamo delineato nell’articolo precedente ha cominciato a diffondersi piuttosto recentemente. Se vogliamo, si può dire che è diventato oggetto d’interesse presso gli analisti It e i Cio delle aziende più attente alle opportunità date dalla tecnologia quando nel 2011 Ibm ha presentato Watson, un sistema che ha marcato una svolta più culturale che tecnologica nel rapporto uomo-macchina e che, con abile mossa promozionale, è anche balzato agli onori della cronaca battendo i migliori concorrenti umani nel popolare (negli Usa) quiz a premi Jeopardy!

Risposte multiple di Watson visualizzate su dispositivi portatili. Notare i livelli di accuratezza visualizzati con barre e percentuali.

Tre mesi fa Ibm ha creato una nuova business unit per portare il know how maturato in ambito cognitivo attraverso il progetto Watson in soluzioni al servizio delle imprese. Un passo che apre nuove prospettive sia agli utenti sia ai vendor It. Usiamo il plurale perché sebbene Ibm guidi la corsa, anche altri vi si stanno aggiungendo. Nessuno fa dichiarazioni perché la mossa di Big Blue ha intuibilmente indotto i potenziali concorrenti a rivedere le proprie strategie (non si arriva dopo se non si è certi di avere qualcosa di meglio o di diverso), ma certamente vi sta lavorando Hp, che ha partecipato al progetto SyNapse e ha sviluppato un chip ibrido costituito da transistor e memristor (memory-resistor). Questi ultimi, che gli Hp Labs di Palo Alto hanno per primi realizzato nel 2008, sono elementi circuitali che ‘ricordano’ il proprio stato elettronico e lo comunicano agli altri elementi con segnali analogici. Poiché un segnale analogico può avere più stati intermedi tra “on” e “off”, questo tipo di processore può imitare le funzioni delle reti neurali biologiche meglio e con più efficienza di un circuito tutto digitale ed è difficile che Hp, che oggi lavora sui chip ibridi come soluzione storage a stato solido, non pensi al loro impiego in un sistema cognitivo.
Quasi altrettanto certo è l’interesse di Google, come si può intuire dalle sue più recenti acquisizioni tecnologiche. In un arco di soli quattro mesi sono entrate nel suo portafoglio ben quattro aziende di robotica (in ordine di tempo, Redwood Robotics, Meka Robotics, Bot&Dolly e Boston Dynamics), una di riconoscimento gestuale (Flutter), una di home automation (Nest, pagata più di 4 miliardi di dollari) e soprattutto, il 26 gennaio, una di intelligenza artificiale, Deep Mind Technologies, una start-up pagata ‘solo’ 650 milioni di dollari. Avendo già soluzioni di riconoscimento facciale e linguaggio naturale, è molto probabile che l’azienda di Mountain View guardi a sistemi cognitivi integrati in ‘smart machines’, robot non umanoidi ma capaci d’interagire con gli umani e di prendere decisioni autonome in specifici ambiti di conoscenza. Secondo Gartner, si tratta di sistemi che probabilmente si diffonderanno in azienda e nelle case già prima del 2020, con profondi effetti sullo stile di vita e sul mercato del lavoro.
Altri nomi che potrebbero lavorare al cognitive computing sono Microsoft e Oracle. La prima ha espresso in studi pubblicati da Microsoft Research il suo interesse verso sistemi capaci di fondere informazioni tratte da fonti di conoscenza e canali sensoriali in modo da percepire l’ambiente e dialogare con l’uomo. Quanto alla seconda, la nostra supposizione si basa semplicemente sul fatto che oltre a disporre delle tecnologie di Data & Knowledge management, Intelligence & Analytics e Complex Event Processing necessarie in ambito cognitivo e di avere i mezzi per acquisire quelle che le dovessero mancare, Oracle ha anche sistemi hardware molto potenti e già ottimizzati per aggregare e analizzare big data eterogenei che non sarebbe difficile specializzare nei nuovi compiti.

Una strada che passa dal cloud
Quale che sia la strategia di offerta e l’approccio al mercato di un eventuale fornitore di sistemi cognitivi, la loro introduzione in un’impresa deve affrontare due ordini di problemi: uno tecnologico e uno di impatto sull’organizzazione e sul lavoro.

Massimo Leoni, Distinguished Engineer ed Executive It Architect, Ibm Italia

Parliamo di tecnologia. In attesa dei futuri e rivoluzionari sistemi basati su chip neurali e/o ibridi, le soluzioni di cognitive computing sulle quali oggi si sta lavorando sono applicazioni che devono ‘girare’ su sistemi che offre il mercato. E qui c’è il primo intoppo, perché per emulare via software il comportamento umano occorre un’enorme potenza di calcolo. Il Watson di Jeopardy! era un ‘mostro’ formato da 10 rack di server Power 750 in cluster Linux, con 15 terabyte di Ram, 2.280 ‘core’ di elaborazione e una capacità di 80 teraflop. Oggi i server di classe data center sono più piccoli e più veloci e la loro efficienza può ancora migliorare, ma non sono diventati molto più economici. Forse qualche grande impresa e più probabilmente qualche organizzazione governativa si potrà permettere di avere un sistema cognitivo in casa e di poterlo mantenere aggiornandone infrastruttura e applicazioni, ma per la grande maggioranza dei potenziali utenti la strada al cognitive computing passa necessariamente per i servizi cloud. E difatti non è un caso se sia Ibm sia gli altri nomi interessati ai sistemi cognitivi sono anche (o soprattutto, come Google) fornitori di servizi cloud, con grandi data center dedicati sparsi nel mondo. Ne abbiamo parlato con Massimo Leoni, Distinguished Engineer ed Executive It Architect di Ibm Italia, secondo il quale: “La modalità d’ingresso di queste tecnologie è il cloud, che sarà erogato come Software-as-a-Service per fruire dell’applicazione finale e come Platform-as-a-Service per aggregare i vendor software indipendenti a sviluppare usando questa tecnologia e mettere a disposizione, sempre via cloud, le loro soluzioni”. Anche se in futuro probabilmente si andrà verso un mondo ibrido di cloud e in-house, “ciò che vediamo adesso – prosegue Leoni – è che tutta la conoscenza, i dati, la programmazione e quant’altro dovranno essere portati in qualche modo sul cloud e sul cloud avverrà anche l’interpretazione. Nulla vieta però di portare dei ‘pezzi’ del cloud in azienda, magari con appliance sulle quali elaborare direttamente i dati, per poi interagire con la parte cloud e ottenere informazioni che potremo ricevere su tablet o smartphone”.

Ma chi insegnerà alle macchine?

Previsioni di diffusione dei sistemi cognitivi (smart machines). Prima gli advisor aziendali, poi gli assistenti personali e solo dal 2020 i veicoli robotizzati, ancora in fase di studio.

Fonte: Gartner

In realtà, l’aspetto più rilevante che presenta il trasferimento delle tecnologie cognitive nel mondo dell’impresa è quello organizzativo e umano. Come ci dice ancora Leoni: “Ciò che vedo di maggior impatto rispetto al modo classico con cui si approccia l’It in azienda è che saranno sempre più necessari degli esperti di dominio, cioè degli informatici che siano anche esperti del settore in cui la macchina sarà destinata e che dovranno coniugare l’uso delle tecnologie cognitive con la conoscenza che dev’essere impiegata in quell’ambito. Saranno loro, infatti, a doverla istruire su quelle particolari e specifiche esigenze che le permetteranno di potersi interfacciare al meglio con i suoi utilizzatori”. Questi ‘esperti di dominio’, come li chiama Leoni, ovviamente già ci sono: sono le persone che guidano l’azienda in modo che competa nel proprio campo; il cambiamento sta nel ruolo che dovranno avere. “Se prima – prosegue Leoni – c’era l’analista che trasferiva all’informatico tutta una serie di conoscenze, ora ci sarà un’unica persona per fare da trainer alla macchina, che dovrà conoscere sia i contenuti da trasferire sia come farlo in pratica”.
Per svolgere un tale compito queste persone andranno formate. Ed è quindi logico chiedersi che livello di conoscenza delle tecnologie cognitive abbiano le realtà che ne saranno potenziali utenti. “Forse non se ne rendono conto – risponde Leoni – ma molte le stanno già utilizzando L’approccio ai big data con l’analisi testuale e anche la cosiddetta sentiment analysis sono il gradino d’ingresso al cognitive computing e difatti abbiamo portato queste tecnologie nell’ecosistema Watson. Si stanno già usando anche primordiali applicazioni di linguaggio naturale, penso ad Apple Siri, l’interprete dei comandi vocali dell’iPhone”. Se una formazione alle tecnologie cognitive sarà comunque necessaria, non dovrà quindi partire da zero, anche se, come accade ogni volta che nuovi processi o nuove tecnologie intervengono sul modo di lavorare, ci saranno sempre figure dotate di expertise ma refrattarie a condividerle con una ‘stupida macchina’.

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