“Il nostro paese oggi è più povero che in passato in termini di investimenti in ricerca, quando le risorse erano solo italiane”, è il paradosso evidenziato dall’ex- ministro Francesco Profumo, professore del Politecnico di Torino e neo-Presidente della multiutiliy Iren, in occasione di un recente Convegno, organizzato da Toscana Promozione, sulle politiche industriali per mettere a confronto i distretti Toscani e quelli corrispondenti delle regioni tedesche.
A fronte di ogni 100 euro di contributo per la ricerca, spiega Profumo, l’Italia ne perde 40, mentre, fra i grandi paesi, la Gran Bretagna ne riporta a casa 150 e la Germania 94, e paesi più piccoli, come Austria e Olanda ne riportano a casa 145. “Tutto ciò non accade per la maggior generosità del nostro Paese, ma per qualcosa di strutturale che non funziona”, commenta. L’Italia, pur risultando in Europa il contributore netto più importante, si colloca infatti in 27° posizione per qualità di spesa, con conseguenti difficoltà a sedersi al tavolo per trattare con gli altri Paesi europei.
Tutto ciò risulta particolarmente critico dal momento che sta partendo il nuovo settennato (2014-2020) di finanziamenti alla ricerca europea e che ha definito nuovi criteri di ripartizione. Quanto accaduto nei sette anni passati dovrebbe far riflettere, a partire dal bilancio riportato nell’analisi per l’Italia di Horizon2020, il Programma Quadro di Ricerca e Innovazione 2014-2020 (Hit 2020).
Nel Programma Idee, ad esempio, che ha rappresentato una delle novità del Settimo programma quadro di ricerca 2007-2013 (VII PQ), il tasso di successo dell’Italia è stato particolarmente modesto (3,2%) e nettamente inferiore alla media europea (14%) (figura 1). Questo fatto si spiega con l’alto numero di progetti italiani: il maggior numero di proposte presentate allo European Research Council provengono infatti da ricercatori italiani, mentre in termini di progetti approvati l’Italia si colloca in quinta posizione, dietro a Regno Unito, Germania, Francia e Paesi Bassi.
Ma per avere successo nei programmi della R&I europei è necessario partecipare attivamente e in modo continuativo ai processi di definizione degli obiettivi (sia nella fase di stesura dei programmi sia nelle singole azioni) e di gestione delle attività, suggerisce l’analisi Hit 2020. Richiede quindi un sistema Paese attento ai temi europei della R&I, un coordinamento interno e a livello europeo che veda coinvolti Ministeri competenti, Regioni, Rappresentanze, esperti di programma e nei vari gruppi europei, la qualificazione e lo sviluppo di servizi per favorire la partecipazione. Anche in questo ambito diventa indispensabile fare massa critica e quindi favorire processi di confronto e collaborazione per definire idee progettuali forti.
Altrettanto negativo e allarmante il bilancio tra mobilità in entrata e in uscita nel settenato che si sta avviando alla conclusione: il 78% della mobilità riguarda ricercatori italiani che vanno all’estero contro un 22% di ricercatori stranieri in Italia.
Interessante anche l’evoluzione rispetto alle tematiche e le attività, all’interno di ogni programma, ad esempio in area Ict. Nel V PQ (1998-2001) l’Italia registrava, fra l’altro, una buona partecipazione nelle tecnologie per la società dell’informazione che ha continuato ad essere fra i punti di forza del sistema italiano anche nel VI PQ (2002-2006). Mentre, in termini di ritorno finanziario, l’Ict ha registrato un arretramento nel successivo VII PQ.
In termini di finanziamenti, alla conclusione del VII Programma Quadro (che vede un budget complessivo di 50 miliardi di euro per il periodo 2007-13), il sistema italiano della ricerca avrà ottenuto finanziamenti per circa 4,2 miliardi di euro (8,4%), per una media di 600 milioni/anno. Nello stesso periodo 2007-13, il finanziamento pubblico per la ricerca (assumendo che il 50% dell’investimento nel sistema universitario possa essere attribuito alle attività di ricerca degli atenei) è stato di 3,5 miliardi/anno per le università e 1,7 miliardi/anno per gli Enti di ricerca, per un totale di 5,2 miliardi/anno. Le risorse europee hanno rappresentato dunque, in media, appena l’11% delle risorse investite in ricerca dalla mano pubblica, una quota insufficiente per modificare in positivo la situazione critica del sistema nazionale della ricerca. L’Italia ha versato nel paniere comunitario, nel periodo 2007-13 circa 7 miliardi (il 14% dei 50 miliardi totali), recuperandone su base competitiva solo 4,2.
A fronte di una buona qualità delle ricercatrici e dei ricercatori italiani, in particolare in materia di produzione scientifica. Occorre dunque uscire dal paradosso che vede ottimi ricercatori ottenere scarse risorse. “Abbiamo ottimi atomi (bravissimi studenti e ricercatori), ma non riusciamo a mettere insieme queste capacità”, è il commento di Profumo che segnala la necessità di prepararsi alla novità che, nel periodo 2014-2020 vedrà per la prima volta una ripartizione dei fondi per la coesione ripartiti non sulla base del contributo versato. Almeno per il 50% i finanziamenti dovranno essere investiti per la ricerca, focalizzata soprattutto sull’intangibile, e saranno ripartiti attraverso una competizione fra territori simili per specializzazione.
“Per il 2014-2020 dobbiamo recuperare il ritardo o rischiamo un massacro”, avverte Profumo, ricordando il valore dell’operazione che vale oltre 70 miliardi, che dovrebbero diventare a fine periodo circa 80.
Il nuovo programma prevede infatti finanziamenti che coprono l’intero percorso, dalla ricerca knowledge driven, alla sua traduzione in innovazione technology driven, fino alle applicazioni industriali e commerciali (society driven).
Horizon2020 assegna alla ricerca di frontiera 25 miliardi di euro; 18 miliardi di euro sono previsti per la ricerca di più immediata traduzione in innovazione (priorità Industrial Leadership), con investimenti in tecnologie-chiave abilitanti e un più ampio accesso al finanziamento e sostegno alle Pmi; 32 miliardi di euro sono assegnati alle sfide globali che la società contemporanea è chiamata ad affrontare (priorità Societal Challenges).
“Se manteniamo gli stessi indici del passato ripotiamo a casa poco più di 2 miliardi, mentre se diventassimo bravi come gli inglesi riporteremmo a casa oltre 5 miliardi”, sottolinea Profumo.
Si può infatti ragionevolmente ipotizzare che, prendendo come base i 5,2 miliardi che il sistema pubblico oggi investe annualmente a livello nazionale, a essi si potrebbero aggiungere 1,6 miliardi dal Programma Europeo Horizon2020 e 3,5 miliardi dai Fondi Coesione, per un totale di 5,1 miliardi ‘europei’, determinando così un incremento del 50% delle risorse a disposizione del sistema. È però necessario un approccio basato su una visione coesa del sistema della ricerca e su un metodo che ne valorizzi tutti gli attori, pubblici e privati.
Per superare rapidamente quei punti deboli che riducono oggi drammaticamente la capacità della ricerca italiana di accedere ai finanziamenti che sarebbero determinanti per farla progredire, riportiamo alcune indicazioni fornite dallo stesso Profumo:
- valorizzare capacità e impegno;
- assumere un’idea della conoscenza che non si limiti a trasferirla, ma capace di farla crescere grazie alla capacità di far migrare i nostri ricercatori e saper attrarre altri per incrementare davvero la conoscenza;
- maggiore trasparenza, di cui spesso si ha paura perché siamo deboli;
- una maggiore capacità di gestire il tempo e rispettare le scadenze, che va imparato fin dalla scuola;
- una vera semplificazione, a partire dal modo in cui vengono formulati i bandi;
- la cultura diffusa della valutazione dei risultati. “Visto che sono soldi pubblici che vengono da chi paga le tasse è doveroso rendere pubblico se sono stati raggiunti gli obiettivi e dunque proseguire su questa strada o se interrompere”, commenta Profumo.
Valorizzare le risorse, superare il Gender Gap
Fra gli obiettivi di Horizon2020 c’è il pieno utilizzo del capitale umano disponibile. L’attenzione e la limitazione dei meccanismi di discriminazione diretta e indiretta, consapevole e inconscia, e la promozione della parità di genere a tutti i livelli, vanno visti come strumento per incrementare le performance del sistema della ricerca.
Nonostante le diverse iniziative nazionali, europee e internazionali degli ultimi decenni per spingere le donne a intraprendere una carriera scientifica, i risultati stentano ancora a emergere. Le donne, ormai maggioranza non solo tra i laureati, ma anche tra i dottori di ricerca, diventano progressivamente minoranza man mano che si procede lungo la carriera della ricerca, fino alle posizioni di massima responsabilità. Alla base di questo paradosso, secondo l’analisi Horizon, ci sono fattori come l’opacità nei processi di reclutamento e progressione di carriera e il riconoscimento del merito per entrambi i generi, ma che incide in maniera più pesante su quello femminile. La discriminazione di genere produce delle implicazioni anche sui contenuti dalla ricerca: è dimostrato infatti che la rappresentanza omogenea di genere nel gruppo di ricerca aumenta la qualità della produzione scientifica e migliora l’accettazione dei risultati dell’innovazione sul mercato. Nella ricerca, come nel resto del mondo del lavoro, permane inoltre, se pur in aree circoscritte, il divario retributivo tra i sessi, mentre l’approccio organizzativo del lavoro non è certo neutrale rispetto al genere, rendendo spesso difficile per le donne di talento la possibilità di conciliare lavoro e famiglia o di relazionarsi con una struttura gerarchica organizzata secondo il modello dell’uomo breadwinning (ossia dove la responsabilità del sostentamento familiare è attribuita all’uomo), mentre la partner femminile è considerata il secondo lavoratore del nucleo familiare (figura 3).