Per evidenziare un nuovo protagonismo dello Stato nell’innovazione per il rilancio del Paese, abbiamo individuato alcuni progetti che ne evidenziano le potenzialità.
Un esempio è quello della fatturazione elettronica che, a partire dall’obbligo per le aziende che operano con la Pa, si sta estendendo, anche se ancora troppo lentamente, fra imprese in una logica B2B.
Un altro caso riguarda le scelte tecnologiche e architetturali per la Pa che possono venire viste non solo come un modo per migliorarne l’efficienza, ma anche come un segnale per il settore privato e per i fornitori di tecnologia sollecitati a elevare la qualità dell’offerta. Parliamo sia delle scelte relative alle infrastrutture fisiche (prevalentemente basate sul cloud), sia alle strutture immateriali, come Spid (Sistema pubblico di identità digitale: permette di accedere a tutti i servizi online della Pa tramite nome utente e password unici).
Più complesso è il caso dello smart manufacturing, la cui adozione è strategica per l’Italia, che resta il secondo Paese manifatturiero europeo anche se le sue quote di produzione sono diminuite negli ultimi anni. Qui sembra esserci consapevolezza della necessità di un’azione diretta dello Stato senza importare però modelli nati altrove bensì che tengano conto della struttura produttiva tipica del Paese.
Il ruolo pubblico nella realizzazione dell’infrastruttura per la banda ultra-larga (Bul) con il Piano approvato dal Governo, dal Parlamento Italiano e recentemente anche dall’Autorità per la Concorrenza Europea, è infine indispensabile per superare i ritardi rispetto agli altri Paesi europei oltre a essere una precondizione per il raggiungimento degli obiettivi di digitalizzazione della Pa, delle imprese e dei cittadini.
Fatturazione elettronica per la Pa e per il B2B
L’obbligo di Fatturazione Elettronica verso la Pa ha costituito un evento epocale per la digitalizzazione del Paese, con un ruolo guida da parte dello Stato. Secondo i dati dell’Osservatorio Ict nella Pubblica Ammnistrazione di Assinform, nella PA Centrale la fatturazione elettronica interessa ormai il 93,3% delle fatture ricevute, mentre nei Comuni ha raggiunto l’85,3%. Secondo la stima dell’Osservatorio Fatturazione elettronica e dematerializzazione della School of Management del Politecnico di Milano oltre 750.000 imprese hanno inviato 38,5 milioni di “file fattura” in formato .xml agli oltre 56mila uffici pubblici preposti a riceverli. L’Osservatorio ha stimato il beneficio complessivo: potrebbe ammontare a circa 1,5 miliardi suddivisi fra PA (che ne godrebbe per i due terzi) e imprese fornitrici, nel caso si attuasse la condizione migliore, ossia quella in cui i processi di gestione accompagnano la fattura elettronica in digitale dal momento dell’emissione a quello della conservazione.
Ma nonostante l’indagine realizzata dall’Osservatorio del Politecnico evidenzi che il 55% delle imprese (fornitori e non della PA) giudichino la fatturazione elettronica un’innovazione importante per la Pubblica Amministrazione, con potenziali risvolti positivi anche per le imprese, l’adozione per gli scambi fra imprese si è limitata, nel 2015 al 6% dell’1,3 miliardi di fatture scambiate fra organizzazioni.
“Il tema della fatturazione elettronica è di primaria importanza per la crescita delle nostre imprese nell’ecosistema in cui vivono. Può rappresentare un buon punto di partenza e uno stimolo verso una digitalizzazione che interessa tutti i processi e le attività core dell’azienda nel dialogo con gli stakeholder pubblici e privati”, ha dichiarato Alvise Biffi, Vicepresidente Assolombarda e Presidente Piccola Impresa di Assolombarda.
La discrepanza fra la consapevolezza e la concreta adozione deriva probabilmente dal fatto che solo il 17% delle imprese dichiara di aver sfruttato l’obbligo come occasione per re-ingegnerizzare i propri processi di fatturazione, mentre la maggior parte si è limitata a trovare una soluzione per assolvere alla normativa, sviluppandola internamente o acquisendola dal mercato.
“Con la Fatturazione Elettronica verso la Pubblica Amministrazione, il nostro Paese ha mosso un passo importante e concreto per avviare la stagione della digitalizzazione, ma l’occasione è stata sfruttata solo parzialmente dalle imprese – è il commento di Irene Facchinetti, Direttore dell’Osservatorio Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione – Non può essere il Legislatore, che correttamente continua a stimolarla, il vero attore della trasformazione digitale. Sono le imprese a essere chiamate a una scelta esistenziale: essere competitive in un mercato unico europeo digitale o rischiare di scomparire del tutto”.
Per incentivare lo scambio di fatture digitali fra imprese, sono previsti (ddl 5 agosto 2015 n. 127) incentivi fiscali per la trasmissione digitale delle fatture all’Agenzia delle Entrate, una seconda opportunità che le imprese dovrebbero cogliere per re-ingegnerizzare le relazioni B2B. Sarebbe però indispensabile che, soprattutto le più piccole, ne comprendessero i vantaggi in termini di competitività, per l’accesso a nuovi mercati, ma anche di benefici economici: il solo scambio di fatture elettroniche potrebbe portare risparmi da 5,5 a 8,2 euro a fattura e si arriverebbe a 25-65 euro digitalizzando l’intero ciclo dall’ordine al pagamento, secondo le stime dell’Osservatorio del Politecnico.
Spid, la nuova chiave di accesso al mondo digitale
Spid (sistema pubblico di identità digitale), il nuovo “passaporto” digitale per l’accesso ai servizi della Pa è emblematico perché in prospettiva dovrebbe diventare la chiave di accesso unica (per cittadini e imprese) non solo ai servizi della Pa, ma anche a quelli della Rete in generale, contribuendo alla digitalizzazione dei cittadini e a creare opportunità per le imprese.
Spid può inoltre essere visto come il primo passo verso un modello economico basato sulla sharing economy, è la suggestione proposta da Antonio Samaritani, Direttore Generale di Agid: “È a costo zero per lo Stato, essendo a carico di imprese che hanno deciso di seguirci in questa avventura in vista di possibili ritorni (in termini per esempio di upselling e crosselling) e vendita di servizi ai privati. Riescono a farlo perché lavorano sulle loro infrastrutture a costo marginale zero”.
Il ministro Maria Anna Madia, in occasione del Forum Economia Digitale organizzato dai Giovani di Confindustria, ha indicato “l’introduzione di Spid come motore per accelerare l’offerta di servizi digitali della Pa”.
Spid rappresenta un tassello essenziale sia per dare attuazione alla cittadinanza digitale (inserita nel Cad – Codice dell’amministrazione digitale) e per coinvolgere quel 50% di cittadini italiani ancora non digitali, sia per introdurre un sistema competitivo fra le amministrazioni che hanno come obbiettivo quello di agganciare il cittadino in una logica uno a uno; il cittadino, da parte sua, ha il vantaggio, una volta che un’amministrazione l’ha posto nella necessità di avere Spid, di diventare digitale per tutte le altre amministrazioni. Una logica dunque più basata su incentivi che su imposizioni.
I risultati del servizio, lanciato il 15 marzo scorso, non sono finora confortanti, soprattutto per il numero di identità erogate: poco meno di 80mila a metà luglio a fronte di 3 identity provider accreditati (Tim, Poste Italiane e Infocert), 183 amministrazioni attive far cui 6 Regioni (Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche), 3 comuni (Firenze, Venezia, Reggio Emilia) e vari enti pubblici (Agenzia delle Entrate, Inps, Inail, Equitalia).
I risultati possono forse derivare dal fatto che ancora solo il 20,5% dei Comuni dichiara di essere già pronto a migrare tutti i propri servizi online su Spid, anche se la maggior parte dei Comuni (il 56,8%), al momento ha in corso attività progettuali per rendere conformi i propri servizi online a Spid, soprattutto tra gli Enti tra i 60 e i 100 mila abitanti dove raggiunge il 72,2% secondo l’Osservatorio Assinform.
Ma per raggiungere l’obiettivo di 3 milioni a fine anno servirebbe una “killer application”. La roadmap tracciata da Agid prevede che entro dicembre 2017 tutte le Amministrazioni, Centrali e Locali, debbano abbandonare i propri sistemi di identificazione e aderire a Spid, adeguando i propri servizi on line in termini di security e di accessibilità.
Spid si inserisce in un’architettura a tre livelli: infrastrutture fisiche, infrastrutture immateriali ed ecosistemi.
“Per ognuno definiremo, entro l’anno, obiettivi di performance, di qualità e di sicurezza che la PA dovrà rispettare, mentre sono in fase di definizione, con le Regioni e con i Comuni, le necessità di nuove infrastrutture immateriali. Queste andranno ad aggiungersi a quelle già identificate come PagoPa, Anpr e lo stesso Spid… Per gli ecosistemi (scuola, sanità, turismo…) sono in fase di definizione le regole tecniche e una semantica comuni”, precisa Samaritani.
Verso il paradigma cloud
Sotto i servizi alla base della digitalizzazione realizzati o in fase di realizzazione si collocano le infrastrutture fisiche (data center, cloud e connettività). Il primo censimento effettuato da Agid, su mille data center (se ne contano più di 10mila) ne ha confermato l’inadeguatezza (il 70% per le dimensioni dei locali e il 50% per motivi di inagibilità).
La strada tracciata è quella del cloud computing che, secondo i dati dell’Osservatorio Assinform, risulta in crescita presso gli Enti della PA Centrale, con una percentuale di adozione attuale o prevista a breve (entro il 2016) pari al 56,3%. A livello delle Regioni, quasi la metà dei Cio intervistati ha dichiarato che il proprio Ente ha già provveduto ad adottare o prevede di adottare nei prossimi mesi servizi cloud. La maggiore resistenza si è invece riscontrata nei Comuni dove solo il 19% prevede di adottarlo tra il 2015 e il 2016, mentre permane una forte resistenza all’adozione di servizi cloud da parte del 47% circa dei Comuni, che a oggi non lo adotta né prevede farlo nel futuro.
L’Osservatorio cloud per la Pubblica Amministrazione della School of Management del Politecnico di Milano, basato sui dati 2015, notava che il cloud si sta affermando ma, secondo gli enti pubblici, per accelerare la sua diffusione sono necessari innanzitutto un sistema di connettività efficiente (54%), una strategia di government cloud di lungo periodo (46%) e la definizione di standard di sicurezza condivisi (43%).
È dunque certamente una buona notizia la conclusione a maggio del bando gestito da Consip che metterà a disposizione delle pubbliche amministrazioni centrali e locali connettività, sicurezza delle reti, sicurezza applicativa e cloud computing, secondo gli indirizzi definiti da Agid, con una visione sistemica per l’allocazione delle risorse e per lo sviluppo dei sistemi informativi di tutta la pubblica amministrazione italiana.
Il Lotto 1 della gara Spc cloud (Sistema pubblico di connettività – cloud), dedicato ai servizi di cloud computing (nelle tre modalità IaaS, PaaS e SaaS) è stato aggiudicato al Raggruppamento Temporaneo di Impresa (Rti) composto da Telecom Italia, Poste Italiane, Postel, Postecom e Hpe Services Italia. Il Lotto 2, che riguarda i Servizi di gestione delle identità digitali, di autenticazione per l’accesso ai servizi e di sicurezza applicativa è stato aggiudicato al Rti composto da Finmeccanica, Ibm Italia, Fastweb e Sistemi Informativi. Questi servizi consentiranno alle amministrazioni di garantire la sicurezza dei propri sistemi e di gestire l’accesso ai servizi anche mediante l’utilizzo di Spid.
Le aziende che hanno sottoscritto i contratti quadro per la fornitura dei servizi di connettività sono Tiscali, aggiudicatario del 60% del valore del contratto, Bt Italia e Vodafone Italia assegnatari ciascuno del 20%.
Sono previsti risparmi derivanti dalla riduzione dei costi unitari dei servizi, ma anche dei costi amministrativi per le gare delle singole PA, non più necessarie. Deriveranno in parte da qui i risparmi previsti nella spesa Ict, di cui si chiede il dimezzamento nella legge di stabilità, circa 800 milioni che dovranno essere investiti nelle piattaforme abilitanti, come Spid.
Se il saving e la riduzione della complessità a carico delle amministrazioni sono importanti, è altrettanto interessante il modello tecnologico e organizzativo proposto che può ispirare il sistema delle imprese di tutte le dimensioni, come di tutte le dimensioni sono gli anti pubblici coinvolti.
Verso industria 4.0, made in Italy
Nei punti precedenti abbiamo indicato una serie di scelte importanti di tipo tecnologico e organizzativo che partendo dalla Pa indicano la strada per la digitalizzazione del Paese. Nel caso dell’impegno in direzione della smart factory, si vedrà se lo Stato italiano è in grado di impegnarsi in una politica industriale che potrebbe essere strategica per il Paese, in un ruolo non solo di innovatore, ma di imprenditore, tenendo conto che, pur avendo ridotto la quota di produzione industriale (anche per l’entrata in campo dei Paesi dell’Est), l’Italia resta pur sempre il secondo Paese manifatturiero dopo la Germania.
Secondo l’analisi europea, che colloca l’Italia fra gli innovatori moderati, grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie le imprese italiane potrebbero ottenere un aumento della produttività tra il 30% e il 50% dalla digitalizzazione e dall’adozione del modello produttivo 4.0. Questo dovrebbe però subire alcuni adattamenti rispetto a quello adottato da Paesi come la Germania per tener conto della diversa struttura industriale, basata sulle Pmi.
L’intenzione del Governo, ribadita dal Ministro del Sviluppo Economico Carlo Calenda in occasione della presentazione dell’indagine conoscitiva su Industria 4.0 della Commissione Attività produttive della Camera, non si limiterebbe allo sviluppo di un framework di azione per favorire gli investimenti 4.0, ma andrebbe a individuare un primo pacchetto di misure da inserire già nella prossima Legge di stabilità.
Sono stati individuati cinque pilastri su cui concentrare l’azione:
- Strumenti di incentivazione per indirizzare gli investimenti verso le tecnologie abilitanti Industria 4.0 e per favorire l’imprenditorialità innovativa, la nascita di startup e il loro scale up, l’accesso al venture capital e la collaborazione fra nuove imprese innovative e imprese già consolidate.
- Considerare fattori abilitanti il soddisfacimento della domanda di connettività, non solo di cittadini e consumatori, ma soprattutto delle imprese e distretti industriali portando una copertura a 100 mega bps attraverso il Piano Banda Ultra Larga; necessario anche aggiornare l’attuale modello di formazione per assicurare la disponibilità di competenze coerenti con il nuovo contesto sia nelle scuole, nella formazione tecnica, nelle università, sia nei processi di riqualificazione professionale e manageriale all’interno delle imprese.
- Favorire l’adozione di standard di interoperabilità, sicurezza e comunicazione IoT in sede nazionale ma soprattutto internazionale, per facilitare l’adozione di processi produttivi e modelli di business basati sull’IoT e l’analitica dei dati capaci di assicurare sicurezza, resilienza e flessibilità.
- Agire sulle relazioni industriali che dovranno assumere una forma più flessibile, essere fortemente decentrate in modo da valorizzare le competenze e le abilità (empowerment).
- Costruire una finanza d’impresa capace di sostenere lo sforzo di investimenti necessario a cogliere le opportunità di Industria 4.0; occorre lavorare per una maggiore canalizzazione del risparmio nazionale verso gli impieghi nell’economia reale e attivare il mercato internazionale dei capitali dando visibilità a emissioni di “carta italiana” (private equity, development bond, Fondo Centrale di Garanzia) su Industria 4.0.
Anche su sollecitazione di Confindustria si sta pensando a una governance pubblico-privata realizzando una cabina di regia governativa, con finalità analoghe alla piattaforma Industrie 4.0 creata in Germania (il piano di reindustrializzazione elaborato nel 2014 con la partecipazione organizzata di tutti gli attori sociali ed economici del Paese), ma con una struttura più snella e flessibile.
Bul, banda per tutti
La disponibilità della banda larga è una precondizione per la realizzazione della maggior parte dei progetti precedentemente elencati e una scelta strategica di politica industriale. È del 30 giugno l’approvazione del Piano banda ultra-larga (Bul) da parte della Commissione europea che l’ha ritenuto in linea con le norme dell’Unione in materia di aiuti di Stato e ha considerato la strategia capace di consentire l’accesso veloce a Internet in aree in cui non è al momento disponibile, senza falsare indebitamente la concorrenza. “Il piano Bul porterà Internet più veloce a consumatori e imprese. Aiuterà il Paese a dotarsi delle infrastrutture necessarie, contribuendo così alla creazione di un mercato unico digitale connesso nell’UE. Grazie a una buona cooperazione con l’Italia, abbiamo potuto completare l’esame del nuovo piano con grande rapidità”, ha dichiarato la commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager.
A seguito dell’approvazione, sarà possibile realizzare il Piano approvato dal Consiglio dei Ministri del 3 marzo 2015 (che ha definito la strategia sulla banda ultralarga), che punta a favorire la crescita digitale di cittadini e imprese, anche utilizzando le leve pubbliche.
Il piano porterà la banda ultra-larga nelle cosiddette aree bianche, quelle considerate a fallimento di mercato (ossia quelle aree in cui non ci sarebbero interventi privati sulla base della convenienza di mercato). Antonello Giacomelli, sottosegretario allo Sviluppo Economico con delega alle telecomunicazioni ha evidenziato: “Non stiamo parlando di un’Italia residuale, ma di 7300 comuni italiani su 8mila e 13 milioni di cittadini. Per capirci, più del 70% delle imprese lombarde si trova in aree a fallimento di mercato. Secondo l’Istat, questo intervento potrebbe portare a benefici in termini di produttività dal 7% al 23% a seconda delle regioni e dei settori”. La disponibilità di banda larga a tutti viene considerata la pre-condizione per superare il digital divide ed evitare che l’Italia viaggi su Internet a due velocità.
Grazie al piano Bul l’Italia colmerà il ritardo con la maggior parte degli Stati membri per quanto riguarda la diffusione delle reti a banda larga (almeno 30 Mbps) che oggi garantiscono la copertura soltanto al 44% delle famiglie.
Il piano prevede che lo Stato italiano finanzi completamente la nuova infrastruttura, che resterà di proprietà pubblica, e incaricherà un concessionario della gestione della rete. La nuova infrastruttura sarà aperta a tutti gli operatori interessati, a vantaggio della concorrenza e dei consumatori. L’Italia si è impegnata a creare punti di interconnessione neutrali invece che collegare semplicemente le nuove reti di accesso alle infrastrutture già esistenti degli operatori storici. In questo modo, tutti gli operatori dovrebbero poter raggiungere le nuove infrastrutture di accesso in condizioni di parità. Anche in questo caso lo Stato assume il ruolo di motore di innovazione.