“Ci vuole un cambio culturale”. “Bisogna creare la cultura dell’innovazione”. “Il sistema paese deve favorire un contesto di sviluppo innovativo”. “Gli attori sul territorio, banche, associazioni, università, devono creare le condizioni per indirizzare le imprese verso uno sviluppo di innovazione”. Ma quante volte abbiamo sentito queste cose durante i convegni che trattano il tema dell’innovazione della Pmi in Italia? Ci vengono in mente, per parallelo, le affermazioni di alcuni (non tutti) politici che, posti di fronte alla richiesta di una netta presa di posizione, dicono: “Bisogna guardare al problema da una prospettiva più ampia” oppure: “Occorre creare le condizioni per un ampio dibattito”. Okay, okay: “Continuiamo così! Facciamoci del male” come diceva Nanni Moretti.
Stiamo parlando davvero di cosa fare per aiutare rapidamente le Pmi italiane a reggere la nuova competizione sui mercati internazionali? Stiamo davvero parlando di quale risposta concreta bisogna saper dare alle richieste di innovazione di prodotto, di processo, di sistema che giungono all’Italia e alle sue imprese da una competizione internazionale proveniente da paesi quali India, Cina, Est europeo? Ci confrontiamo con paesi che non rappresentano più solo bacini di convenienze economiche di manodopera, ma soprattutto di nuove intelligenze, capacità di innovare, di fare ricerca e sviluppo; paesi verso i quali si sta spostando una parte enorme di investimenti per creare nuova ricchezza (e opportunità di business) attraverso l’apertura a nuovi consumi da parte di questi mercati. Se stiamo parlando di tutto questo e noi continuiamo a parlare, durante i nostri convegni, del “contesto culturale” vuol dire che da un lato non abbiamo capito, come imprese e singoli soggetti, l’entità della sfida, e dall’altro, se l’abbiamo capito, speriamo, come gli struzzi, che nessuno entri mai nell’orticello della nostra impresa. Come se la rapida perdita di competitività della “nazione Italia” sullo scacchiere internazionale possa riguardare tutti gli altri tranne la mia impresa.
La sensazione è proprio questa. Di una sottovalutazione del problema (e delle opportunità) di ciò che accade “là fuori”. Un mondo che vive una turbolenta fase di evoluzione economica, sociale, tecnologica. Là fuori esiste un mondo che vive su un concetto di internazionalizzazione del business; paesi emergenti che programmano una diffusione massiccia di Ict presso imprese, scuole, nel sociale favorendo la diffusione e l’utilizzo del Web alle persone; nazioni nelle quali accanto a convenienze di manodopera a basso costo stanno emergendo con rapidità competenze e capacità di innovazione estreme e dove i fondamentali, la ricerca, la scuola, la formazione, la “produzione di laureati” in materie tecnico-scientifiche, sta mettendo in crisi il primato degli Stati Uniti. Insomma un mondo, quello della competizione e della relazione con questi nuovi mercati, che vede le aziende e le persone coinvolte muoversi su un piano di adozione delle tecnologie Ict come l’elemento imprescindibile di supporto. L’Ict visto e realizzato sia come infrastruttura strategica a livello di paese (diffusione di larga banda, utilizzo delle tecnologie diffuso nei vari ambiti della società) sia come strumento principale attraverso il quale far crescere una cultura individuale di innovazione e di relazione/confronto con altre persone vicine e lontane.
Di fatto, come ha avuto modo di sottolineare Lucio Stanca, ex ministro dell’Innovazione Tecnologica e attuale membro della 10ma commissione permanente (Industria, Commercio, Turismo) del Senato in un recente incontro svoltosi presso la sede di Confindustria di Pescara, l’Italia, negli ultimi 15 anni, sta perdendo strutturalmente terreno rispetto agli altri paesi europei, mostrando una scarsa capacità di crescita e di innovazione che la pone in una situazione di criticità se guardiamo alle dinamiche di sviluppo mondiale.
Cosa fare, come fare? “Avviare un ampio dibattito per favorire una crescita culturale?”. Aspettiamo che la sfera politica, nella sua sensibilità e vicinanza alle esigenze di modernizzazione del paese dimostrata negli ultimi decenni (non saremmo fanalino di coda in Europa se fosse stato diverso) delinei, anzi soprattutto applichi, le linee guida future dell’Italia in tema di innovazione tecnologica? Che ridefinisca le politiche di formazione scolastica di base e universitaria per far crescere le nuove generazioni all’interno di un sistema nuovo? Mi spiace, ma la risposta più concreta e più efficace a queste domande sta nella singola persona. Il cambiamento nasce, questa è a nostro avviso la risposta, dalla capacità del singolo di accettare la sfida del cambiamento, senza aspettare che la propria azienda entri in uno stato di difficoltà per decidere di innovare. Serve accettare il fatto che il contesto economico, competitivo e sociale sta cambiando e che il riferimento del confronto, dello sviluppo del business e anche della mia formazione mentale non può più essere il mio territorio conosciuto, il mio distretto, la mia nazione. Ma la dimensione è ormai inevitabilmente internazionale. Nel bene e nel male. Nuova, forte competizione, ma anche nuova, forte opportunità di lavorare con nuovi talenti, aggredire nuovi mercati, lavorare con nuovi partner. È ormai provata la relazione tra investimenti Ict e crescita economica. Negli Stati Uniti il 60% della crescita dipende dall’Ict. La media europea è del 40%. La spesa It in Italia lo scorso anno (dati Assinform) ha confermato la tendenza alla crescita, registrando un +1,6% ma, pur essendo un segnale positivo, non regge il livello di crescita degli altri paesi, anche europei. Una velocità che ha quindi ampliato la dimensione del ritardo misurabile da diversi indicatori; uno su tutti l’incidenza della spesa It sul Pil che nel nostro caso è dell’1,9% contro il 3,2 della Francia e il 3,9 degli Stati Uniti. I motivi? Numerosi: i divari di adozione della tecnologia tra grandi e piccole imprese, territori, individui. Un’adozione molto disomogenea e frammentata.
Sono le persone, dicevamo, la molla primaria. Non abbiamo più il tempo di aspettare … “il sistema paese”. Serve migliorare la produttività delle imprese attraverso la qualità e la competenza delle persone che devono mettersi in gioco. Partendo, come si diceva prima, dalla voglia di innovare che deve essere individuale e poi trasferita in impresa.
Da un’altra prospettiva, c’è da dire che se il problema è reggere il confronto con una nuova competizione, flessibilizzando l’azienda, utilizzando nuovi strumenti per innovare, non dovremmo poi essere messi troppo male. Da sempre i nostri imprenditori hanno accettato la sfida del cambiamento e dell’innovazione (vedi il made in italy). Il punto è che questo modello di approccio non basta più. Servono nuovi strumenti, modelli e sistemi organizzativi che passano dalla capacità di utilizzare al meglio le tecnologie Ict come elemento non solo di razionalizzazione di costi ma di supporto strategico alla capacità di proposta sul mercato. Come smuovere, soprattutto nella Pmi e nella figura dell’imprenditore “self made man”, questo muro di diffidenza, incomprensione, scetticismo nei confronti dell’informatica mentre il resto del mondo, proprio attraverso l’infrastruttura Ict progetta, produce, analizza dati per prendere decisioni strategiche, integra e si confronta sempre più con partner e clienti, ridisegna di continuo, ottimizzando attraverso l’Ict, le proprie supply chain per essere in grado di aumentare il proprio livello di flessibilità sulla base delle convenienze che lo scacchiere internazionale può offrire?
Una delle risposte sta nel trovare la “killer application” adatta per quella specifica Pmi, per avviare attraverso un rapporto onesto e reale di partnership (che in passato non è avvenuto) tra fornitore, terze parti e clienti, quella convinzione sull’efficacia dell’Ict che una volta sperimentata dall’imprenditore non viene più abbandonata ma anzi, portata avanti con determinazione. Certamente non può essere “la” risposta, ma bisogna che anche quelle imprese oggi ferme al palo dell’innovazione Ict vedano l’utilità strategica di un utilizzo diffuso in azienda di queste tecnologie. Si dovrebbe quindi partire dalla capacità di confezionare, in un rapporto stretto utente-partner-fornitore, delle soluzioni nelle aree ritenute più strategiche per la Pmi: rapporto con il cliente (soluzioni pacchettizzate di Crm), efficienza della propria forza vendita (integrazione mobility-sistema informativo); gestione della complessità e supporto aziendale (cruscotti di analisi-business intelligence semplificata); efficienza nelle comunicazioni e collaborazione con i propri fornitori e clienti (quella Unfied communication e collaboration di cui parliamo nella storia di copertina e che punta a razionalizzare i diversi strumenti di comunicazione già oggi presenti in azienda, introducendo efficienza e nuove modalità di flussi di informazione e contatto). Tenendo presente l’esigenza di costi contenuti, la necessità di evidenziare il vantaggio e l’efficacia ottenuta e una concretezza e serietà di approccio che per la Pmi è il linguaggio, l’unico, che è in grado di capire.
Dobbiamo, anche se non ne abbiamo voglia, partecipare alla rivoluzione in corso. Ma non preoccupatevi; non si tratterà di scendere in piazza. Nella piazza della competizione mondiale, ci sono già, oltre ad alcune aziende italiane, i cinesi, gli indiani, i nuovi paesi che si affacceranno sul nuovo scenario economico internazionale (Russia, Brasile, nuovi paesi africani, quando Cina e India non saranno più, fra alcuni anni, così convenienti). È la rivoluzione dell’economia, altrettanto distruttiva (se non di più) di quella popolare. Una rivoluzione che rischia di relegare il nostro paese ai margini. E mentre restiamo convinti che l’attuale livello di benessere e qualità di vita raggiunto sia intoccabile, aspettiamo, sempre guidato da altri, un cambio culturale “affrontando il problema da una prospettiva più ampia”.
È primavera, svegliatevi bambine
Cosa fare per aiutare rapidamente le Pmi italiane a reggere la nuova competizione sui mercati internazionali e arrestare la perdita di terreno strutturale del nostro Paese rispetto agli altri paesi europei? Come può contribuire l’Ict per aiutare la crescita e l’innovazione? Cerca di rispondere Stefano Uberti Foppa, direttore di ZeroUno, secondo il quale la perdita di competitività della “nazione Italia” è un problema sottovalutato che potrà essere risolto, prima di tutto grazie alla capacità del singolo di accettare la sfida del cambiamento e superare lo scetticismo nei confronti dell’informatica. La meta è trovare la “killer application” adatta per quella specifica Pmi, per creare attraverso la collaborazione con fornitori, terze parti e clienti, quella convinzione sull’efficacia dell’Ict che una volta sperimentata non viene più abbandonata.
Pubblicato il 12 Dic 2007
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