Chiunque di noi, e siamo ormai moltissimi, sia quotidianamente “contaminato” da un’attività digitale (attraverso lo smartphone facciamo ormai di tutto, anche telefonare, qualche volta…), sa bene quanto la propria vita sia stata modificata in funzione delle esigenze (soprattutto economico-produttive) dell’“always on”.
Vuol dire relazioni, lavoro, acquisti, informazioni, comunicazioni potenzialmente eseguibili sempre, 24×7.
Vuol dire un ricorso continuo ad un’ampia serie di tecnologie di comunicazione che, per loro intrinseca natura, tendono a generare routine automatiche sempre più indipendenti dalla volontà e dagli interessi della persona.
Vuol anche dire attività che si affastellano, si parallelizzano e inevitabilmente si scontrano con la mentalità e la struttura di pensiero, soprattutto di chi (e sono ancora molti) non è “nativo digitale”, una struttura improntata da sempre a privilegiare criteri di sequenzialità. In altre parole, abbiamo tante informazioni, facciamo molte più cose ma il tutto va a scapito, consapevoli o meno, di due elementi fondamentali che ci stanno sfuggendo di mano: la qualità (di vita e di lavoro) e il tempo.
Abbandoniamo subito la tentazione di un’analisi sociologica sul rapporto, più o meno equilibrato, tra sostenibilità personale e digitalizzazione diffusa, tra cicli di innovazione tecnologica e capacità di assorbimento e metabolizzazione sociale. Concentriamoci in questo caso sul lavoro, sulla sfera professionale.
Diamo per acquisito, salutandolo senz’altro come evento positivo per l’evoluzione della specie umana, la diffusione del digitale in ogni ambito che contraddistingue la nostra vita: sanità, trasporti, ricerca, produzione, ambiente, cultura, non avrebbero quelle grandi prospettive che invece hanno se alla base non vi fossero le tecnologie digitali. E naturalmente anche il business, rispetto al quale vogliamo qui analizzare i fenomeni qualità/tempo, non avrebbe sviluppo e innovazione continua se non procedesse sui binari della digitalizzazione (zero e uno – ZeroUno, bello vero?).
Ma c’è un problema: come fare a gestire correttamente, finalizzando qualità e valore, questa enorme disponibilità di informazioni, connessioni, azioni che possiamo realizzare oggi con la rivoluzione digitale? Come, soprattutto da un punto di vista professionale, non esserne travolti seguendo la dimensione quantitativa con il miraggio di arrivarci sempre e comunque?
Avete un secchiello e una paletta. E di fronte avete il mare. Quanto velocemente potrete andare? Volete davvero svuotarlo tutto?
È un dibattito aperto da tanti anni ormai. Il nostro contributo sta nella declinazione del concetto di Qualità (che si riverbera direttamente nella variabile Tempo).
Quello che sta mancando oggi, nel processo di digitalizzazione diffusa, sono ad esempio le competenze, soprattutto quelle orientate a capire, dalla grande mole di dati disponibili, quali azioni sarebbero opportune ed efficaci intraprendere per il business. È un’opzione che vogliamo lasciare totalmente all’automazione dei sistemi? Vogliamo essere davvero sostituiti nella nostra capacità di prendere decisioni sulla base, oltre che di dati, di esperienze, valori morali, etici, filosofici persino? Siamo sicuri di poter reggere il rapporto con questi sistemi intelligentissimi, potentissimi, velocissimi, relegandoli a ruolo di supporto oppure rischiamo di esserne inconsapevolmente gli esecutori poiché ci manca un’adeguata struttura di pensiero che sempre più ci sta venendo a mancare?
In altri termini, il rischio è di seguire una deriva verso un tecnicismo, a base digitale, in cui se non riusciremo a sviluppare criteri di qualità dell’analisi e del pensiero, criteri interpretativi mutuati dall’essenza dell’essere umano, e quindi pregni anche di elementi sentimentali, sensoriali, etici, potremmo diventare soprattutto esecutori di intelligenze digitali/artificiali altrui.
La qualità sta, in questi anni, anche nella capacità di saper sviluppare una mentalità analitica, che non si faccia travolgere dalla quantità digitale, dalla complessità derivata dall’enorme disponibilità di dati e di alternative sottoposte a noi dai computer.
Ma qualità vuol dire anche molto altro. Saper sviluppare una gestione del tempo orientata al risultato finale, all’obiettivo da raggiungere secondo uno schema, un modello, che non può essere guidato dalle continue risposte che l’always on ci richiede. In questi anni (e ancor di più in futuro) di social networks, di social business, di realtà aumentata e di Internet of Things, se perderemo di vista la nostra capacità interpretativa e il giusto valore da attribuire al tempo e al metodo, perderemo inevitabilmente in qualità. Saremo soggetti più o meno consapevolmente guidati dal software.
Quali potrebbero essere, allora, gli elementi di “ancoraggio” del pensiero in una situazione così fluida? Quali i punti di riferimento?
Sono ormai alcuni anni che seguiamo non solo gli annunci tecnologici ma anche l’impatto sociale (oltreché sull’impresa) della tecnologia. E tutte le volte che proviamo a trovare antidoti alla deriva quantitativa che il digitale, in modo affascinante e coinvolgente, determina su ognuno di noi, l’ancoraggio lo troviamo non in una risposta scientifico-tecnologica, ma filosofica e umanistica. Facendo cioè riferimento a valori e temi (quindi non solo a criteri economici) all’interno dei quali deve essere calato, rimodulato, rapportato, ricondotto e sviluppato, il progresso scientifico-digitale. Stiamo parlando dei punti che costellano il pensiero filosofico. Ad esempio parliamo del valore del Dialogo nella sua declinazione digitale, dove si potrebbe analizzare fino a che punto è pregnante il “significato” e dove invece è il gioco del contatto e della relazione fine a se stessa tra persone a guidare; oppure guardiamo allo studio e all’interpretazione filosofica della realtà attraverso la matematica; la Logica, con le sue quattro esigenze di base; rigore, leggibilità, problematicità, prospettiva storica (tutte cose applicabilissime alla nostra rivoluzione/evoluzione digitale); la Libertà nel suo valore individuale (vogliamo parlare di Privacy?) e collettivo di Democrazia (vogliamo parlare dei social networks e delle dinamiche legate alla nascita di comunità e sfere culturali che si autoalimentano e rischiano il distacco dalla realtà, diventando quasi dei “villaggi vacanza virtuali”, con propri adepti, regole, leggi e senso di proprietà distante dalla vita reale?); e ancora il senso filosofico dell’evoluzione umana, con la Responsabilità del futuro e di ciò che lasceremo a chi ci seguirà. E tanto altro ancora; l’Etica, per esempio, che ampio campo di applicazione potrebbe avere nello sviluppo delle “cultural analytics”, cioè quelle tecniche e quei sistemi (e corporation) orientati a categorizzare gusti e tendenze per clusterizzare profili di utenti/consumatori i quali, inconsapevolmente, si incamminano in percorsi digitali con l’errata convinzione di essere soggetti singoli ed univoci, ed invece appartengono a gruppi di utenza ben profilati, guidati in percorsi di acquisto, informazione, condizionamento.
Guardiamo perciò ai nostri tempi tenendo sempre presente il valore della qualità del pensiero, del ragionamento e anche del tempo e del metodo necessari a guidare la nostra capacità di saper interpretare, vivere, utilizzare il digitale. Solo così, anche nel lavoro, sapremo centrare quegli obiettivi di qualità, autorevolezza, capacità di finalizzazione, ma anche di abilità relazionale e di corretta attribuzione di pesi e misure, che questa rivoluzione digitale rischia di farci pericolosamente dimenticare.
Argomenti
Canali
Speciale Digital360Awards e CIOsumm.it
Articolo 1 di 2