Eppure, se uno guarda con un po’ di attenzione ai progetti che durante questa crisi vengono comunque portati avanti dalle aziende italiane, non può che vedere segnali positivi. Da rintracciare soprattutto nel modo in cui siamo fatti, come imprese ma prima ancora come individui. C’è un’effervescenza, dettata, si dirà, più dalla disperazione e dal timore di non farcela che non dall’ortodossia dello sviluppo economico, la quale dice che è meglio e più produttivo innovare proprio nei momenti più difficili, per uscirne, quando questi lasceranno il passo alla nuova ripresa, più forti e preparati di prima.
Ci sono evidenti segnali di attivismo diffuso. Si stanno affilando le armi, si stanno pensando nuove strade, si fanno quadrare i conti senza rinunciare a creare novità in prodotti e servizi (possiamo chiamarla innovazione?). Insomma: come sempre, nelle difficoltà non stiamo fermi.
Ma accanto a questa “operazione sopravvivenza”, viene da chiedersi, abbiamo la forza di guardare avanti secondo una programmazione che getti le basi per un nuovo sviluppo economico nel quale le tecnologie Ict e la capacità di innovazione sostenuta attraverso di esse diventino patrimonio diffuso sul territorio?
Lasciando da parte l’effimera soddisfazione di aver sorpassato proprio in questi giorni la Gran Bretagna per quanto riguarda il Pil realizzato nel terzo trimestre 2009 (350 miliardi l’Italia contro i 347,5 miliardi dei sudditi di Sua Maestà – valori espressi in sterline); e lasciando da parte anche le disfide, tutte politiche, all’interno della maggioranza di Governo per determinare il futuro dell’attuale Ministro del Tesoro Tremonti in un momento in cui, invece, servirebbero coesione e confronto (anche con l’opposizione) per la messa a punto di linee guida di sviluppo strutturale; lasciando infine da parte i soliti problemi di evidente distanza tra esigenze sociali ed economiche di cittadini e imprese e l’esiguità della risposta politica, torniamo a concentrarci su come le aziende italiane stanno concretamente operando all’interno della crisi.
Ho incontrato, durante un recente viaggio negli Stati Uniti, il management di una piccola impresa italiana operante in quello che, tra le province di Crema, Cremona e zone limitrofe, è definito il meta-distretto della cosmesi e del benessere. E’ uno dei tanti esempi, in Italia, di aziende che, su un substrato di realtà territoriali rappresentato da Regione, banche e associazioni di categoria, fanno rete fornendo prodotti, servizi, modelli produttivi, ricerca e innovazione a chi, come in questo caso le aziende francesi nel settore della cosmetica, sono i leader del mercato. Avete un’idea di quante decine di distretti italiani specializzati stanno ora rivedendo, alla luce della crisi, le loro modalità operative e competitive? Ebbene, questa azienda italiana, all’interno del proprio percorso di sviluppo, si è trovata a dover acquisire nell’ultimo anno, un’altra impresa, avviando un processo di razionalizzazione organizzativa e produttiva non indifferente. Qual è uno degli elementi unificanti? Un Erp. Il direttore generale dell’azienda mi parlava di come l’Erp abbia in questa fase quel ruolo di integratore, di ottimizzatore di processi e metodi tale da consentire all’azienda una rinnovata capacità produttiva e competitiva. Ecco allora emergere ormai anche nella media impresa italiana, accanto al diffuso stereotipo del “padrone con la Ferrari” (che non capisce nulla di It), imprenditori, manager e “padroni” che accettano la sfida del cambiamento anche attraverso l’uso delle tecnologie. E questo per svariati motivi: di crescita culturale, di cambio generazionale, di confronto e adeguamento con modelli organizzativi globali, di introduzione in queste aziende di livelli di management che hanno sostituito il precedente riferimento padronale. Perché negarci questa evidenza? Noi di ZeroUno ne abbiamo incontrate moltissime, di medie imprese, che attraverso Cio “eroici”, alle prese con tagli di budget, utenti distratti, management talvolta inadeguato, hanno portato avanti notevoli progetti di innovazione tecnologica a supporto e cambiamento del business model aziendale. Quando poi l’Ict come strumento di valore di business diventa patrimonio comune tra imprenditore e Cio, ecco che l’alchimia produce capacità di innovazione e nuova competitività. Se tutto questo possa poi diventare “sistema” nella struttura industriale italiana è difficile dirlo. Tuttavia la sperimentazione, la ricerca di vie di uscita per essere tra il gruppo dei primi (anche se le diverse classifiche, vedremo in seguito, ci danno sempre una fotografia impietosa del nostro paese) è una nostra prerogativa, come individui, imprenditori, manager, blu e white collar.
Sembra inoltre aumentare oggi, tra i diversi attori, una maggior consapevolezza circa la necessità di intervenire con rapidità e di dare concretezza e impulso a una strategia economica che non può più limitarsi agli ammortizzatori sociali ma che deve estendere il proprio respiro a una risposta di innovazione e sviluppo, quantomeno per allinearsi all’azione di alcuni tra i principali paesi europei che stanno ripartendo con riforme orientate proprio in questo senso (la Germania, su tutte). Così va inteso, ad esempio, l’intervento del Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia tenuto in occasione dell’XI Forum delle piccole imprese a Mantova lo scorso 24 ottobre. La sensazione è che l’azione dell’Associazione degli Industriali nei confronti del Governo rispetto a questa situazione economica critica per le imprese, stia cambiando, affiancando alla naturale focalizzazione sugli interessi delle imprese e degli imprenditori, quella visione di sviluppo dell’azienda allargata al rapporto con le persone che la compongono e al suo ruolo sul territorio e nella società; una visione che in passato era spesso mancata, incentrata soprattutto su agevolazioni economiche di breve respiro. In sostanza, una richiesta incalzante al Governo di poter impostare, da un lato, elementi strutturali (a livello normativo e fiscale) che favoriscano e agevolino una ripresa stabile e di prospettiva, dall’altro interventi rapidi con tagli alla spesa pubblica, di aiuti non solo agli imprenditori ma anche ai lavoratori e ai loro stipendi, per concretizzare le numerose promesse di sviluppo fatte in passato. E maggiore concretezza: “Se guardiamo agli altri Paesi – ha detto infatti Marcegaglia – questo è ormai il tempo dei fatti, della capacità di attuazione”.
Concludiamo con pochi dati, presi da un recente studio dell’Economist Intelligent Unit (con la partnership di Bsa, Business Software Alliance). Si tratta di una classifica dei sistemi economici che offrono all’It l’ambiente più favorevole per lo sviluppo dell’innovazione attraverso la tecnologia. Pochi dati e pochi punti in chiusura, giusto per condividere alcuni milestones che dovrebbero essere considerati nella discussione di sviluppo economico di cui si parlava prima. Innanzitutto, e questo non lo dice lo studio ma lo rilevano numerose indagini italiane, il comparto It è oggi il quarto settore industriale in Italia, con 103 mila imprese e 545 mila addetti (2,5% degli occupati a livello nazionale). E quindi, al di là di cogliere il carattere strategico della diffusione tecnologica negli altri settori merceologici è comunque, a sé, un comparto numeroso e di elevata eccellenza professionale. Lo studio dell’Economist ci posiziona in 24ma posizione nella classifica generale dell’indice di competitività del settore It a livello mondiale (non è un gran successo avendo, di fatto, nelle posizioni che ci precedono tutti i principali paesi industrializzati, a parte la Spagna, subito dietro di noi al 25mo posto), facendo emergere alcuni punti deboli del nostro sistema economico. Quali? I nostri soliti problemi “endemici”: la necessità di aumentare la capacità di Ricerca e Sviluppo (un punteggio di 16,4 per l’Italia contro il 63,2 di Finlandia e il 61,3 degli Stati Uniti. Se vogliamo guardare la Francia, come comparazione più vicina a noi, ha il 37,6 di score; non siamo nella classifica che conta, quella dei primi 20 paesi per l’R&D); la carenza nella disponibilità diffusa di infrastrutture It (banda larga soprattutto – score di 52,5 per l’Italia contro il 65,8 di Francia, l’81,3 degli Stati Uniti e il 93,8 della Danimarca; non siamo nei primi 20 paesi per disponibilità di It infrastructure); competenza e skill delle persone (Human capital) in tecnologie Ict (posizione migliorabile ma non negativa come le precedenti: score di 48,4 contro 75,6 di Stati Uniti, ma siamo davanti alla Francia che ha 45,1 e allineati ai paesi scandinavi; 18ma posizione sui primi 20 paesi in area Human Capital). Lo studio contiene infine anche una raccomandazione importante, che riguarda la capacità di sviluppo strategico di tutti i paesi: Denis McCauley, direttore delle ricerche in campo tecnologico globale dell’Economist Intelligent Unit, afferma infatti: “Il nostro consiglio rivolto ai politici è di mantenere una stretta focalizzazione sui fondamentali fattori che abilitano la competitività a lungo termine del settore, piuttosto che varare misure a breve, destinate a innalzare risultati economici o a sostenere imprese già in difficoltà”. Sarebbe già un risultato, concludiamo, avere l’attenzione del governo (attraverso normative e investimenti) su un settore tanto strategico per lo sviluppo e con persone di eccellenza qual è oggi l’It nazionale.
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