BARCELLONA – “Il luogo del valore non sono i Big data” Peter Sondergaard, Senior Vp e Head of Research di Gartner ama sorprendere l’uditorio: “I dati sono necessari, ma transitori e di per sé inerentemente stupidi. Il Cio non deve farsi percepire come ‘data keeper’, chiunque può farlo e assumere esperti di analytics”. A meno non ci metta qualcuno o “qualcosa” che sappia interpretarli, e sulla base dell’interpretazione, agire. Gli algoritmi sono il “qualcosa”, il luogo del vero valore. Definiscono le azioni da compiere in funzione di dati e contesto. Possono essere statici, come una formula o una ricetta (“quella della Coca Cola è un algoritmo statico e segreto, che ha creato un impero”) o dinamici se sanno definire azioni in funzione, oltre che dei dati, del contesto in cui opera la “cosa” che abitano.
Il “business algoritmico”, come lo definisce Sondergaard, si afferma in healthcare, manufacturing, retail. Nel finance, il trading algoritmico ridefinisce la velocità con cui muovono gli investitori e il mercato finanziario. Algoritmi definiscono i processi di supply chain, di una customer experience differenziante, di valutazione fornitori, di assessment dinamico del rischio: quanto petrolio è prodotto, raffinato, distribuito o stoccato; quale il giusto mix di medicine da somministrare a un paziente; i processi dietro una multa o al sistema di punti per chi guida.
Algoritmi reggono i meccanismi di interazione con i clienti: quello di Amazon che consiglia prodotti da comprare in analogia con quelli già acquistati; quello di crowdsourcing di Netflix che ci incolla allo schermo a vedere film; l’algoritmo dinamico di Waze che dirige su strada migliaia di auto indipendenti, guida ciascuna sul percorso dinamicamente migliore, e così ribilancia in tempo reale le pattern di traffico. Su algoritmi tipo Waze le metropoli più avanzate ridisegnano il sistema di trasporti, raffinano e ottimizzano il super algoritmo di smart city loro proprio.
I consumatori hanno il loro Personal Assistant, uno smart Agent con algoritmi ereditati dal cloud, e su questi configurato. Entro il 2020 “dimenticheremo” le App scelte a menu: i Personal Assistant eseguiranno i nostri comandi vocali e il 40% delle nostre relazioni e interazioni. Cortana di Microsoft, GoogleNow, Siri di Apple, Echo di Amazon ne sono i prototipi.
Tre i fronti indicati da Sondergaard sui quali iniziare a lavorare sugli algoritmi:
- inventariarli;
- identificare quanti costituiscono un differenziatore (processi chiave, momenti decisivi di interazione o in generale relazione con il cliente);
- assegnarli, “Responsabilizzate il vostro Chief Data Officer, non solo di Big Data e Analytics, ma degli Algoritmi, il vero valore”, dice Sondergaard;
- classificarli, ”Privato, se l’algoritmo è differenziante per il business. Pubblico se ha valore, ma non è strategico, decidete se attribuirgli una licenza d’uso, scambiarlo, venderlo, o, cosa non ovvia, darlo via”.
Un'economia algoritmica
Il razionale di Sondergaard è visionario: emergerà un mercato di algoritmi o, più accuratamente, “di frammenti di software che svolgono funzioni precise”. Immaginate, dice, decine di milioni di algoritmi riusabili e disponibili. Ogni pezzo di codice che fa un servizio costituirà una nuova miniopportunità. Insomma, “il business algoritmico partorirà una economia algoritmica che innescherà un salto quantico nell’ evoluzione del M2m (Machine to machine), nel futuro a breve. L’economia algoritmica, e non Big Data, è il vero carburante dell’IoT”, ribadisce il Senior Vp.
Inevitabile il risvolto etico dell’utilizzo di algoritmi, fa riflettere Sondergaard. Queste smart machine finiranno con il fare cose complesse, con poste in gioco sempre più alte, fino a decisioni che possono significare vita o morte. Codificate nel software dell’auto, regole algoritmiche, sostituiranno la persona alla guida. Auto, Robot, Droni opereranno su algoritmi che ricevono ordini da noi umani in modo dapprima semi indipendente e poi via via sempre più indipendente. Affronteranno problematiche etiche, finora affrontate solo da noi. Quale rischio prendere? Di chi rispettare la privacy? E alla fine diventeranno smart, imparando dall’esperienza. Produrranno risultati non previsti dai loro creatori.
Il Chief Risk Officer (o Ciso), diventa responsabile non più solo di Rischio Security, in una It con problemi in fondo solo difensivi, ma di Protezione (Safety) e Qualità, in una Operational technology e in una IoT, con compiti esecutivi. E diventa “algoritmico”, cioè responsabile di far codificare in modo corretto, compliant ed etico all’interno del software di questi novelli Robot-Cop con quali criteri la macchina potrà essere fermata e da chi. O fra due bersagli quale scegliere. “Un livello di responsabilità di un ordine di grandezza superiore, per il nuovo Ciso It, Ot e IoT”, ricorda Sondergaard.
Shift di ownership, di talenti e di ‘stile di leadership’ del Cio
“La madre di tutti gli shift è la relazione dipartimento It – altre unità organizzative – mondo esterno”, è il Sondergaard pensiero. Lo dicono i budget: nel 2005 il Dipartimento It controllava il 70% della spesa It, ogni tecnologia fuori Dipartmento era considerata stealth, non strategica. In dieci anni il bilancio del Dipartimento It, cresciuto sì ma assai meno del resto, è il 58% del totale. E le proiezioni vedono il sorpasso già nel 2017. La tecnologia è ora “fuori, all’aperto” nelle Lob, di pari passo con la digitalizzazione dei processi.
Ma uno sguardo fuori dall’azienda (o dalla Pa) dice al Cio che il mercato della Consumer Technology è ormai ben più vasto di quello Enterprise Technology. E i consumatori sono ormai sempre più ferrati in tecnologia. Altro che Byod. “Qualunque azienda (vendor compresi) vede ormai molti più esperti lavorare fuori che dentro i perimetri aziendali”, dice Sondergaard. Un indicatore quantitativo è la capacità di server nel cloud (acquistati da service provider per erogare servizi cloud, normale o iperscala): stanno sorpassando quelli acquistati a uso privato dalle grandi aziende o dalle Pmi messe assieme. E allo stesso tempo. l’Iot sta spingendo a tutto vapore tecnologia nel mondo fisico esterno (e chi sta popolando Iot? La Lob); la comunità esterna sovrasta la concentrazione di skill di qualunque azienda.
Il secondo shift, altrettanto tettonico (in parte riconducibile al primo) è nei Talenti, sia dei fornitori sia degli utenti. L’enfasi di Sondergaard su quel “qualunque azienda”, nello shift precedente, potrebbe far riflettere il Cio su eventuali difficoltà rilevate in qualche suo fornitore. E a volte fargli immaginare la necessità di sourcing innovativi e diretti sul mercato, dove gli esperti si trovano. Quanto allo shift nei Talenti interni all’azienda, esso trasforma gli skill necessari ai professionai, agli stessi manager e non lascia certo esenti i ruoli degli executive, con nuove posizioni che nascono e posizioni in essere che evolvono a volte drasticamente. Ma questo è tutto un altro capitolo al quale ZeroUno dedicherà ampio spazio nel 2016, per analizzare l'effetto radicale che la rivoluzione digitale del business ha sull'organizzazione stessa.
Ma il terzo shift, riguarda lo stesso Cio in prima persona e gli deve derivare dalla constatazione che i confini dell’universo della tecnologia si sono espansi fuori dal suo controllo. “L’approccio alla leadership del Cio – dice Sondergaard – deve essere sempre meno quello di controllare e sempre più di influenzare le iniziative digitali. Perché la buona notizia è – conclude Sondergaard – che queste capacità esterne di tecnologia conferiscono al Cio nuove opportunità da intercettare”. Insomma: la realtà per il Cio è meno controllo, ma fuori dalla propria organizzazione enormemente più risorse sfruttabili al bisogno; all’interno, maggior influenza ma non controllo totale. Il che alla fine deve portare a maggior flessibilità. “L’influenza scala, il controllo no”, chiosa Peter Sondergaard.