Questo articolo rappresenta il secondo contributo di una piccola serie, realizzata da docenti e professionisti, sul tema della gestione del cambiamento tecnologico in ambito industriale, combinando conoscenze teoriche ed esperienze sul campo.
Nel precedente articolo è stato discusso il tema dell’impatto sulle persone delle tecnologie e del cambiamento a base tecnologica. In questo secondo articolo viene invece discusso come gestire il cambiamento e la resistenza al cambiamento nelle organizzazioni aziendali.
Il cambiamento nelle organizzazioni
Il cambiamento nelle organizzazioni non è mai stato così necessario, frequente e complesso come oggi. Come affermava Benjamin Franklin, “Quando hai finito di cambiare, sei finito”. La novità, oggi, è data dalla frequenza con la quale dobbiamo cambiare, dal passo al quale ci è richiesto di muoverci, dalla complessità e dall’instabilità del contesto in cui stiamo operando. Questo concetto, più che mai attuale, descrive la realtà in cui operano le organizzazioni moderne: una realtà instabile e imprevedibile, in cui il cambiamento non è più un’opzione ma una necessità per sopravvivere e prosperare. Poiché, come diceva Winston Churchill: “Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”.
Eppure, mentre alcune aziende riescono a sviluppare con successo processi rapidi di cambiamento, molte altre falliscono nel processo, sprecando risorse e lasciando i dipendenti frustrati e demotivati. Il problema principale? La resistenza al cambiamento, una barriera naturale ma spesso evitabile, che può essere superata solo con approcci strategici, leadership adeguata e una profonda comprensione delle dinamiche culturali e umane.
Le organizzazioni affrontano cambiamenti di natura diversa, ciascuno con le proprie sfide:
- Cambiamento organizzativo: legato alla ridefinizione di ruoli, processi e strutture gerarchiche: ad esempio quando un’organizzazione passa da una struttura per funzioni ad una per processi
- Cambiamento strategico: quando viene modificato il modello di business, ed in particolare viene aggiornato il revenue model perseguito dall’azienda: ad esempio quando si passa dal vendere un prodotto (es. una fotocopiatrice) al vendere l’output di quel prodotto (le copie stampate) e infine a fare l’outsourcing dei processi di stampa del cliente
- Cambiamento gestionale: che accade quando si modifica il modo di gestire uno specifico processo: ad esempio quando vengono adottate in maniera pervasiva le tecniche gestionali lean in un sistema logistico-produttivo, rivoluzionando le logiche che pilotano il flusso di acquisti, produzione, stock, etc.
- Cambiamento commerciale: che consiste nell’aggiornamento delle strategie di vendita e marketing, ad esempio quando si passa dalla vendita tradizionale di un prodotto all’affitto lungo o al leasing
- Cambiamento tecnologico: che può accompagnare qualsiasi dei cambiamenti sopra indicati, in corrispondenza con l’adozione di un nuovo strumento tecnologico a supporto di un processo, come l’intelligenza artificiale o altre tecnologie dirompenti.
Ciascuna di queste trasformazioni, se non adeguatamente preparata, non solo potrebbe non produrre risultati efficaci, ma soprattutto potrebbe generare resistenza.
Perché opponiamo resistenza al cambiamento?
La resistenza al cambiamento è naturale: deriva principalmente dalla paura verso ciò che non conosciamo, dalla difficoltà ad abbandonare le abitudini più consolidate e dal timore di perdere il controllo. Kahneman e Tversky, con la loro Prospect Theory, spiegano il concetto della loss aversion secondo il quale, normalmente, le persone poste davanti ad un cambiamento che propone rischi ed opportunità, tendono a dare più peso ai rischi che alle opportunità e quindi temono più di subire delle perdite di quanto non sperino in potenziali guadagni. In altre parole, salvo eccezioni preferiamo restare nella nostra “zona di comfort” piuttosto che affrontare il rischio del cambiamento, anche quando i benefici sono chiari. Questo comportamento è istintivo e quindi non risponde ad un ragionamento razionale e può essere spiegato attraverso le 5 motivazioni di seguito richiamate:
- Pigrizia e abitudine: è più semplice e ci costa meno fatica mantenere ciò che già conosciamo piuttosto che imparare nuovi concetti ed adottare nuove prassi operative – ad esempio in molti sistemi produttivi passati da un flusso “spinto” da MRP ad uno “tirato” da Kanban, le persone fanno fatica ad adattarsi a produrre senza uno specifico ordine di produzione ma solo perché da valle è arrivato un contenitore vuoto
- Cinismo: alcuni di noi possono anche mancare di fiducia nel successo del cambiamento che sono portati a compiere – sarà capitato a tutti noi di vedere colleghi che per diverso tempo verificano a mano la correttezza di procedure o calcoli che sono stati automatizzati, professando l’esigenza di “controllare” che il programma le realizzi correttamente…
- Insicurezza: in diversi casi, vi è la paura di non riuscire a padroneggiare le nuove tecnologie o procedure al medesimo livello raggiunto in quelle vecchie – un problema che ad esempio si è manifestato nel passaggio dai linguaggi di programmazione tradizionali “a statement” a quelli “ad oggetti” e che probabilmente accadrà nuovamente nel passaggio alla programmazione fatta da AI
- Opposizione culturale: che si può manifestare nel conflitto tra valori tradizionali e innovazione – ad esempio nel passare da decisioni “di pancia” modellate dall’esperienza a decisioni “data driven” supportare dai dati di fatto e modulate su modelli quantitativi
- Ansia tecnologica: che si concretizza nello stress lavorativo causato dalla velocità di adozione delle nuove tecnologie, a cui non riesce a corrispondere un’analoga rapidità di evoluzione dei nostri comportamenti – ad esempio molti impiegati di aziende che hanno deciso di diventare “paperless” digitalizzando i processi e virtualizzando i documenti, non riescono a trovare nel documento digitale la medesima sicurezza offerta dalla carta e si creano degli archivi cartacei paralleli
Un cambiamento tecnologico, per quanto necessario, spesso fallisce nel generare il cambiamento comportamentale indispensabile per il successo di una trasformazione se non è adeguatamente preparato. Così, progetti di ampia portata e con obiettivi molto ambiziosi possono essere bloccati da una resistenza passiva sia da parte dei dipendenti che dei manager, rendendo vani gli sforzi e le risorse investite.
Ad esempio, un decennio fa una multinazionale nel settore impiantistico aveva varato un programma molto ampio di digitalizzazione della propria filiera distributiva europea, per migliorare la puntualità e precisione di consegna dei materiali dalle fabbriche ai cantieri dove gli impianti dovevano essere montati.
Un elemento portante di questo programma era la dotazione di diverse migliaia di tablet ai propri capi cantiere, che avrebbero così potuto tenere sotto controllo in tempo reale la disponibilità dei materiali nella filiera, emettere e sollecitare i propri ordini, seguire trasparentemente le tempistiche di consegna, etc.
Purtroppo questo cambiamento non è stato adeguatamente preparato spiegando ai capi cantiere le motivazioni che lo spingevano, le nuove modalità di pianificazione dei flussi ed i vantaggi acquisibili con la nuova tecnologia: per spendere di meno si scelse invece di fornire solo un vademecum di uso pratico delle apparecchiature. Per questo motivo, a distanza di qualche anno, il tasso di adozione era ancora contenuto nell’ordine del 20% dei capi cantiere e gli obiettivi del progetto potevano dirsi sostanzialmente non raggiunti.
I principali errori da evitare
Uno degli errori più diffusi e insidiosi nella gestione del cambiamento è quello di dichiarare vittoria troppo presto. Questo accade quando, senza un forte senso di urgenza, le persone tendono a rimanere ancorate allo status quo, resistendo inconsapevolmente alla trasformazione e generando resistenze ancora più radicate.
Il problema spesso nasce da una sottovalutazione della complessità del processo, dalla confusione tra urgenza e ansia o dalla mancanza di un coinvolgimento attivo dei dipendenti fin dalle prime fasi. Un senso di urgenza positivo è fondamentale per innescare il cambiamento, rompere l’inerzia e motivare le persone. Quando la pressione cresce senza controllo, i dipendenti percepiscono il cambiamento come una minaccia piuttosto che come un’opportunità. Questo non solo frena l’adozione delle nuove iniziative ma indebolisce ulteriormente il clima aziendale.
Inoltre, celebrando in maniera prematura i primi segnali di successo si corre il rischio di credere che l’obiettivo sia stato raggiunto, quando in realtà il percorso è ancora lungo e richiede ulteriori sforzi. Questa falsa convinzione può rivelarsi fatale, perché in simili circostanze può avvenire che l’organizzazione rallenti, rischiando di tornare al punto di partenza, che di conseguenza le risorse investite vengono sprecate e che -in ultima analisi- la fiducia nel processo di cambiamento si indebolisca, generando disillusione e resistenza crescente.
Per ironia della sorte, l’errore spesso nasce da una combinazione di due attitudini opposte:
- gli idealisti, sono coloro che avviano il cambiamento con entusiasmo, euforici per i primi segnali positivi: questo eccessivo ottimismo li porta a celebrare troppo presto, convinti che il percorso sia ormai completato
- gli opportunisti invece, sono i soggetti che resistono al cambiamento e sfruttano l’entusiasmo prematuro per rallentare o sabotare il processo, sfruttando il momento di rilassamento per minare l’iniziativa.
Questa dinamica crea un pericoloso effetto domino: la celebrazione prematura diffonde la percezione che il lavoro sia concluso, l’organizzazione si rilassa e riprendere il percorso diventa estremamente difficile. Iniziative promettenti si arenano, i risultati faticosamente raggiunti iniziano a deteriorarsi e, sull’onda di questi parziali insuccessi, le persone tornano alle vecchie abitudini.
Occorre invece considerare che un processo di cambiamento a base tecnologica si compone sempre di 3 parti ben chiare:
- la preparazione, in cui si progetta in maniera dettagliata il cambiamento e si predispongono tutte le basi culturali, organizzative e operative affinché esso abbia successo, oltre ad identificare e definire i KPI atti a misurare efficienza ed efficacia del progetto implementativo
- l’applicazione, in cui la nuova tecnologia viene praticamente implementata, seguendo la blueprint messa a punto nella fase precedente
- infine, la messa a regime, che deve accompagnare gli utenti ed il nuovo sistema finché quest’ultimo non funziona in maniera corretta ed i primi non si sentono perfettamente a proprio agio con la nuova tecnologia
Spesso manca la lungimiranza necessaria per sviluppare adeguatamente la fase preliminare, considerata “una perdita di tempo” e si preferisce passare direttamente all’operatività con l’illusione di accelerare il processo. E non meno frequentemente manca la pazienza per supportare la nuova tecnologia e gli utenti lungo un adeguato rodaggio che comprenda sia il debugging ed il fine tuning del nuovo sistema (è infatti difficile pensare che l’implementazione di una nuova tecnologia di avanguardia oppure di un articolato e complesso sistema informativo possano essere progettate ed eseguite senza il minimo errore), sia un adeguato supporto agli utenti che devono non solo apprendere gli aspetti pratici della nuova tecnologia (“come posso fare…”), ma devono anche conoscerne e sposarne gli obiettivi (“perché l’abbiamo dottata”) ed ottenere i vantaggi sperati (“in che modo posso migliorare…”).
Ad esempio, questo può avvenire istituendo un adeguato presidio (help desk) che raccolga le segnalazioni di errore e le richieste di modifica, sistematizzi ed organizzi gli interventi di correzione e messa a punto, raccolga ed evada i ticket con le richieste di supporto, etc.
Un altro degli errori più comuni è sottovalutare il divario tra il ritmo del cambiamento nell’ambiente esterno e la velocità con cui le organizzazioni riescono ad adattarsi al proprio interno. Questo squilibrio è spesso invisibile, ma può rivelarsi estremamente dannoso. Piccoli miglioramenti incrementali, pur necessari, non sono più sufficienti per affrontare un contesto sempre più veloce, mutevole e competitivo.
Le organizzazioni devono rendersi conto che il cambiamento non è un percorso lineare e prevedibile: è un processo complesso, che richiede visione, agilità e capacità di anticipare le sfide. Illudersi che interventi superficiali o parziali possano risolvere problemi strutturali rischia di amplificare le frustrazioni e gli sprechi di risorse.
Anche questo errore può essere evitato o almeno ridotto significativamente agendo con consapevolezza e competenza. La chiave risiede in alcuni elementi fondamentali:
- mantenere alta l’attenzione: il senso di urgenza deve essere coltivato fino a quando il cambiamento non sarà consolidato nei comportamenti e nella cultura aziendale
- esercitare una leadership consapevole e paziente: i leader devono guidare il processo con chiarezza, etica e inclusività, evitando di trasmettere un senso di ansia o di falsa conclusione
- sviluppare una visione di lungo termine: è essenziale mantenere la visione del cambiamento come un percorso continuo, fatto di piccoli traguardi ma con un obiettivo finale chiaro. Come diceva Henry Ford, infatti: “gli ostacoli sono quelle cose spaventose che vedi quando distogli gli occhi dal tuo obiettivo”
- porre in atto un monitoraggio costante: è ovviamente buona prassi identificare prima dell’inizio del progetto implementativo i KPI che misurano il successo dell’iniziativa e -successivamente- valutare e comunicare i progressi con trasparenza per mantenere il coinvolgimento dei dipendenti.
- Rafforzare le nuove abitudini: celebrare i successi non è di per sé un male, ma essi vanno poi consolidati attraverso la formazione, il riconoscimento e l’allineamento culturale.
- Controllare le dinamiche culturali e comportamentali: lungo tutto il processo di cambiamento è importante identificare, comprendere e affrontare le resistenze, promuovendo la sperimentazione, ed ovviamente tollerando l’errore come parte del percorso di crescita
Con questi strumenti, il cambiamento può smettere di essere una minaccia e si trasforma in un’opportunità per crescere, innovare e prosperare in un mondo in continua evoluzione.
Nei prossimi articoli esploreremo come cultura aziendale, leadership e neuroscienze possano diventare i veri motori di un cambiamento sostenibile e trasformativo. Analizzeremo come il ruolo della leadership e delle dinamiche organizzative influiscano sulla capacità di adattarsi e innovare. Approfondiremo il valore delle neuroscienze e della gestione delle emozioni, strumenti chiave per comprendere e guidare i comportamenti in un contesto in evoluzione.
Prepariamoci a scoprire come la sinergia tra persone, relazioni e tecnologia possa sbloccare il pieno potenziale delle organizzazioni.
Il viaggio verso un cambiamento autentico e duraturo è appena iniziato.
Siete pronti ad affrontare questa sfida?
Stay tuned!
Co-autori
- Federico Adrodegari – Assistant Professor Vice Direttore Università degli Studi di Brescia
- Luca Argenton – Co-founder e CEO Digital Attitude
- Lino Codara – Professore Associato in Sociologia dei processi economici e del lavoro Università degli Studi di Brescia
- Anna De Carolis – Assistant Professor Politecnico di Milano
- Filippo Muzi Falconi – CEO Methodos
- Mario Rapaccini – Professore di Innovazione e Imprenditorialità Università degli Studi di Firenze, Co-Founder & Advisor SmartOperations
- Riccardo Palumbo
- Giovanni Sgalambro – Co-founder e CEO Accompany, Adjunct professor of “Organizing & Leading Change” Unicatt, Co-founder e Past President Assochange
- Stefan Wilda – Coach SITC (Swiss Institute for Training and Coaching) e Ernst Christian