I robot riabilitativi non sono una novità. I primi prototipi nascevano negli anni Sessanta. Nel 2013, il sistema HAL (Hybrid Assistive Leg) sviluppato dall’Università di Tsukuba, in Giappone, è stato il primo esoscheletro motorizzato a ottenere una certificazione CE per l’uso clinico in Europa.
La riabilitazione assistita da robot, oggi, è una parte importante dei trattamenti per il recupero funzionale nelle patologie di origine neurologica o che compromettono il movimento e l’equilibrio delle persone.
L’uso di sistemi robotici permette attività e servizi riabilitativi intensivi. Aiuta medici e terapisti a stabilire il tipo di esercizio, il livello di assistenza, la forza e la cinematica che il paziente deve esercitare.
In Italia, il ruolo di queste tecnologie ha trovato una prima conferma con l’inserimento nel nomenclatore tra le prestazioni di rieducazione motoria erogabili dal Sistema Sanitario Nazionale di “apparecchi di assistenza robotizzata ad alta tecnologia” (revisione normativa del 2018 sui Livelli Essenziali di Assistenza o LEA, aggiornati per le tariffe ad aprile 2023).
In ambito scientifico, invece, Fit for Medical Robotics (Fit4MedRob) è un progetto finanziato con il PNRR che lega biorobotica e tecnologie digitali alla riabilitazione meccanica. L’obiettivo del progetto è trasformare in protocolli per il Sistema Sanitario Italiano, i risultati della ricerca.
Ma ai continui progressi tecnologici dell’uso dei robot per la riabilitazione corrispondono forti disomogeneità nei criteri e nelle metodologie di impiego clinico, nella valutazione degli esiti o nelle certificazioni. Gli aspetti da considerare sono tanti ma ancora di più lo sono i punti di vista: clinico, scientifico, tecnologico, sociale, etico e di profitto.
Le caratteristiche meccaniche per la classificazione
Se si tiene conto dell’aspetto meccanico, i robot utilizzati nelle terapie riabilitative sono classificati in dispositivi a effettore finale (end-effector) ed esoscheletri. Le prime tecnologie robotiche sviluppate per la riabilitazione di persone con ictus cerebrale erano dispositivi end-effector. Questi si interconnettono al paziente in un unico punto, permettendo il movimento dell’intero arto senza costrizioni innaturali. Gli esoscheletri, invece, coprono completamente l’arto (superiore o inferiore) e ne replicano le caratteristiche. Tra gli esoscheletri esiste una differenza definita dalle classi di appartenenza in sistemi fissi e sistemi indossabili ed utilizzabili anche al di fuori dell’’ambiente riabilitativo.
Stabilire con precisione quanti sistemi robotici riabilitativi siano utilizzati in tutto il mondo non è semplice. Secondo le stime di International Federation of Robotics (IFR) in termini di valore, le vendite di robotica medica rappresentano il 55% del fatturato totale dei robot per servizi professionali. Per IFR, la robotica di servizio in cui rientra quella medica, è destinata a crescere per tre motivi: la mancanza di personale qualificato, il cambiamento demografico e i nuovi modelli di business. I progressi tecnologici e l’intelligenza artificiale stanno aprendo a nuovi usi e allo stesso tempo, migliorano le prestazioni in quelli già esistenti.
Le nuove direzioni della ricerca: dall’ambiente ai comportamenti
Attualmente, la robotica per la riabilitazione sta spingendo molta ricerca e in più direzioni. Tra i primi obiettivi, c’è la necessità di sviluppare robot facili da indossare e da rimuovere, ma anche in grado di emulare i comportamenti dell’essere umano.
L’antropomorfismo dei comportamenti o delle funzioni, altra cosa rispetto al replicare le sembianze umane, è molto complesso perché implica capacità di coordinare più funzioni di percezione, cognizione e di azione.
L’Istituto di calcolo e reti ad alte prestazioni (Icar) del Cnr di Palermo ha costruito un sistema somatosensoriale artificiale in grado di sintetizzare sensazioni come dolore, piacere, stanchezza o ansia. Il robot decide sulla base della sensazione percepita cosa fare esattamente come un umano.
Un obiettivo della robotica è andare oltre l’area dei servizi e diventare robotica di consumo per operare in contesti domestici. La trasferibilità ambientale o meglio l’arricchimento ambientale per i contesti riabilitativi non è solo un obiettivo ma anche il miglior farmaco. Questo implica il controllo delle interazioni tra robot e corpo umano, ma anche nell’ambiente circostante: è essenziale che tutto avvenga in maniera sicura.
Ampliare le collaborazioni e standardizzare i processi
Una sinergia più profonda e una stretta collaborazione tra i professionisti del team riabilitativo e i progettisti sono aspetti su cui la ricerca e lo sviluppo dei sistemi robotici devono necessariamente puntare. I robot spaventano, ma mentre i pazienti o i loro familiari riescono a superare uno stato di paura a fronte di un beneficio in salute, i team clinici hanno sentimenti contrastanti. Hanno il timore che una macchina possa sostituirli sul lavoro o di assumere un ruolo passivo e poco gratificante.
“Avere i robot in reparto non è banale” ha sottolineato Marialuisa Gandolfi, Professoressa associata in Medicina Fisica e Riabilitativa dell’Università di Verona, durante un suo intervento in rappresentanza della Società Italiana di Riabilitazione (SIRN) al Festival della Robotica che, ogni anno, si svolge a Pisa.
“L’organizzazione legata alla routine clinica è molto complessa e presuppone la partecipazione di tutto il reparto. È fondamentale per tutti comprendere come il robot non rappresenti un sostituto ma uno strumento” ha spiegato Gandolfi. All’interno degli ambienti riabilitativi c’è, quindi, la necessità di standardizzare i processi.
Una prima presa di coscienza e iniziale risposta viene dalla Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa (SIMFER) e dal SIRN che hanno organizzato la Conferenza Nazionale di Consenso, Cicerone, da cui è scaturito un documento. Si tratta di raccomandazioni che, sia dal punto di vista tecnologico che clinico, definiscono modelli teorici, aspetti organizzativi, etici, giuridici e sociali.
Come valutare gli effetti dell’utilizzo dei robot nelle diverse fasi del recupero?
“Il clinico è abituato ai cicli di riabilitazione di 10 sedute (come previsto dal SSN) ma non sappiamo se il paziente migliora prima e in quale momento. Ecco perché il monitoraggio in tempo reale è fondamentale” sottolinea Marialuisa Gandolfi. “L’AI si inserisce meglio nel caso clinico più dell’hardware – continua – non solo adeguando il trattamento alle singole esigenze, ma anche a quelle mutevoli nel corso della convalescenza”.
Oggi ci sono meccanismi di neuro-riabilitazione che si basano su interfacce robotiche controllate dall’algoritmo in grado di adattarsi al percorso di guarigione del paziente.
Ma c’è anche la necessità di andare oltre, testare e mettere a disposizione realtà virtuale, realtà aumentata e tecnologie domestiche per il trattamento di condizioni cognitive e degenerative. Un training riabilitativo attraverso i sistemi di realtà virtuale può migliorare l’equilibrio nei pazienti neurologici.
Esistono, poi, robot umanoidi, in grado di affiancare personale o caregivers nell’assistenza al paziente o per la cura di persone anziane. I robot sociali sono fortemente indirizzati al supporto psicologico, ad attività di comunicazione/terapia o semplicemente ad affrontare il problema dell’empatia: il 75% dei robot viene progettato per gli adulti e non per i bambini.
E l’etica?
“L’uomo è naturalmente tecnico” afferma Carlo Casalone gesuita e docente della Pontificia Università Gregoriana che ha partecipato alla Conferenza Nazionale di Consenso “la risposta non è opporsi alla tecnologia ma guidare la sua evoluzione rispettando dignità umana e bene comune”. Regole, dunque, criteri scientifici e consapevolezza nel voler cogliere cambiamenti e opportunità. Solo così la robotica riabilitativa potrà entrare a far parte del portafoglio di offerte sanitarie secondo criteri di equità sociale.