Ibm è uscita col suo 5° Global Ceo Study biennale, quest’anno intitolato ‘Leading through connections’. L’indagine, condotta tra Settembre 2011 e Gennaio 2012, ha fotografato piani e sfide che oltre 1700 tra Ceo aziendali (o Ad del settore pubblico) fronteggiano in un’economia sempre più connessa. Come già previsto nel Ceo Study 2010, le risposte sono state aggregate in due gruppi per suddividere le aziende in ‘outperformer’ e ‘underperformer’ [in base a fatturato e profitti rispettivamente sopra o sotto la media di settore, pesati sul Pil del loro Paese – ndr]. Un secondo punto in comune con la precedente ricerca è l’analisi comparativa delle prospettive dichiarate ed estratte da oltre 5.000 interviste ai Ceo, effettuate dal 2004 al 2012, che fa luce su quali stiano mutando o meno. Per dare un’idea della pervasività e globalità dell’indagine, riportiamo alcuni dati significativi: 18 i settori d’industria oggetto dell’analisi, 64 i paesi rappresentati, il 32% del campione rappresenta aziende che si trovano in mercati emergenti, il 52% delle aziende è multinazionale o opera comunque in un contesto globale.
Tecnologia: primo fattore di cambiamento
La prima forza con impatto organizzativo a tre anni, nella percezione dei Ceo, è la tecnologia che supera skill e fattori di mercato o economici. La serie dei 5 Ceo study Ibm mostra una scalata dal sesto posto, nel 2004, al primo posto di oggi (figura 1).
Si tratta di un risultato sorprendente, non tanto perché inaspettato, quanto perché certifica un cambio di prospettiva "epocale": la tecnologia sorpassa l’economia. È percepita come abilitatore non più solo di efficienza ma di collaborazione e ‘collegamenti creativi’ perché ha un forte impatto sul capitale umano, sulle relazioni con i clienti, l’innovazione; elementi, per altro, che risultano in cima alle ‘fonti chiave di valore economico’ (per il 71%, il 66% e il 52% dei Ceo). Non solo: la tecnologie risultano essere anche il motore di interconnessione tra gli innovatori, dentro e fuori l’organizzazione, con ricadute dirette sulle modalità di rapporto con clienti (consumatori e cittadini), dipendenti e partner. Sorge così quella che gli esperti Ibm, e gli analisti, definiscono ormai ‘l’economia connessa’ per organizzazioni, mercati, società e governi.
Come risponderanno i Ceo? L’indagine Ibm analizza a fondo i tre rapporti fondamentali (clienti, dipendenti e partner) in cui la nuova connessione giocherà un ruolo decisivo. Accanto a quello del Ceo stesso, che deve sempre più entrare nella logica di ‘Imparare mentre guida l’azienda’.
Clienti: puntare sulla conoscenza individuale
Ingaggiare i clienti come ‘singoli individui’ e rispondere alle esigenze con rilevanza (72%) ed immediatezza (71%) è il mantra dei Ceo oggi. Il ‘knowledge individuale del cliente’ si ottiene con l’analisi comportamentale in tempo reale (i nuovi Analytics) ben più efficace di segmentazioni e inferenze storiche. Di qui la spasmodica ricerca di ‘comprensione profonda (insight)’ sul cliente, e gli investimenti in Customer Analytics che sovrastano al 73% quelli in ogni altra area funzionale (dalle operazioni all’analisi finanziaria, figura 2).
Gli outperformer sono ‘ossessionati dal rapporto col cliente’ e sono fortemente focalizzati sulla comprensione dei bisogni e delle capacità/opportunità legate al singolo cliente. Si concentrano su strategie e tecnologie per: accedere ai dati ed estrarre insight con nuovi strumenti analitici, controllando complessità e volume di dati; tradurre gli insight in azione, previa riorganizzazione dei processi per ‘eseguire in base al valore’ (prendere cioè decisioni e azioni in base al valore che porteranno al business), un prerequisito ineludibile perché il tempo per catturare, interpretare e trasformare in azione l’informazione è sempre più corto.
Il contatto personale resta di gran lunga prevalente, ma la metà dei Ceo vede i social media diventare la seconda forma di ingaggio (in prospettiva nei prossimi 3 anni; +256% rispetto alla comparazione delle prospettive degli anni passati), superando siti web, call center e canali, a spese dei media tradizionali (-61%). Sanno che blog, commenti dei clienti e fonti online non strutturate rivelano il ‘sentiment’ a livello personale ma con un impatto diretto sul contesto all’interno del quale è espresso tale ‘sentiment’.
Certo, dal rapporto Ibm affiora la paura di una parte dei Ceo di ‘mettere il brand nelle mani di clienti e dipendenti’. Ma un Ceo americano, si legge nel report, paragona la marcia del social media a quella di Internet prima della generale accettazione: “Stiamo col social media come eravamo con Internet dal 1995 al 2000”.
E se l’approccio è dunque il consueto, ‘capire prima di agire’, dal report emerge una triplice raccomandazione ai Ceo. La prima è rendere data driven il processo decisionale giornaliero: da un lato, l’It pesca da un oceano (i Big data), individua pattern, mina il dato grezzo (la risorsa naturale dell’economia connessa), estrae fatti e relazioni digitali dei singoli clienti e intesse con i nuovi analitici un quadro olistico dei vari insight sulla singola persona (colti nei suoi rapporti digitali diretti con l’organizzazione ma anche, e soprattutto ‘con il mondo’, in qualità di cliente-consumatore-cittadino); dall’altro, marketing, vendite e operation aziendali riorientano l’azione sulla base di tali insight, rendendola disponibile (l’azione) anche attraverso i nuovi canali di relazione col cliente.
La seconda è ‘ascoltare a 360 gradi e offrire in modo focalizzato’, dando priorità ai bisogni del singolo, quando e dove si manifestano. Come? Ottimizzando i punti di contatto per raccogliere informazioni allo scopo; canalizzando le informazioni raccolte per incorporarle nelle analisi e fornire risposte rilevanti e tempestive al bisogno percepito.
La terza è sfruttare l’opportunità mobile per ingaggiare un cliente che sempre più ha lo smartphone, il tablet o altri dispositivi intelligenti. Essere cioè dove il cliente si aspetta un contatto con servizi rilevanti nel contesto del momento che il cliente vive.
Dipendenti: strategia di empowerment basata su valori
L’economia connessa cambia il modo di lavorare. Si va sempre più verso una cultura aziendale aperta: collaborativa, comunicativa, creativa e flessibile (figura 3). Il 48% degli outperformer ci crede, contro il 37% degli underperformer e ci arriverà prima perché gestisce il cambiamento (il 73% di più rispetto agli altri). I Ceo dei mercati emergenti sono il 79% più veloci dei Ceo dei mercati maturi. Notare che un tecnologo è richiesto ‘solo’ al 41%, perché il suo è ormai uno skill ‘di base’, come saper leggere e scrivere.
Prima raccomandazione, dunque, evolvere il ‘command and control’ ad un sistema decisionale guidato da valori ed etica aziendale condivisa (lo dice il 65% dei Ceo), da un forte senso di scopo (58% dei Cio), in un ambiente collaborativo (63%). Serve quella che il 60% dei Ceo del campione definisce ‘leadership ispiratrice’, con processi che ispirino la collaborazione su scala di massa.
Secondo, un dipendente ‘a prova di futuro’. La guerra per i talenti non è più una corsa ad accaparrarsi skill, ma una ricerca di persone ‘capaci di reiventarsi’: con un’economia connessa ‘piena di ambiguità’, i corsi formativi (accademici o aziendali) rischiano di pianificare skill superati a fine corso, si legge nel report. L’unica via è avere un dipendente creativo, collaborativo e flessibile che sappia reinventarsi, che venga circondato da un ambiente che stimoli le sue caratteristiche: team che mescolano ad arte funzioni di diversi background. E sul piano tecnologico servono dunque social network con contatti ad alto valore, aperti a collaboratori potenziali e a possibili clienti, oltre a tecnologie di social collaboration scalabili e repository ricercabili che consentano di ingaggiare anche l’intelligenza collettiva aziendale. Servono poi riconoscimenti che incentivino il dipendente, facendo leva su visibilità, reputazione, spirito competitivo, gratificazione rispetto al suo contribuito, compenso monetario, ecc.
E infine ‘rimpiazzare le regole con valori condivisi’: riformare il processo decisionale, guidato da valori aziendali. I dipendenti devono saper gestire ‘d’istinto’ situazioni impreviste sempre più frequenti.
In concreto, le organizzazioni dovrebbero perciò rivedere la realtà culturale dell’azienda, favorire una costruzione collettiva dei valori dell’organizzazione e ‘ricalibrare i controlli’, eliminando quelle regole più efficacemente ‘trasformabili’ in valori aziendali.
Partnership: amplificare la capacità innovativa
I Ceo del campione si sono messi con dei partner ‘per stimolare l’innovazione’: erano poco più della metà nel 2008, sono oltre due terzi oggi; solo il 4% dei Ceo ormai innova ‘in solitaria’.
La motivazione prevalente che guida le alleanze è ‘velocizzare le strategie operative’, ma la partnership è sempre più pervasiva. Passa da obiettivi di espansione geografica, all’innovazione collaborativa. E con fini radicali: più che a nuovi prodotti o operazioni più efficienti, punta a penetrare segmenti d’industria o inventarne di nuovi. I Ceo sentono un rischio ‘industry disruption’; cercano di anticiparlo, i più aggressivi di crearlo a danno della concorrenza. I conservatori, invece, oppongono un rischio legato proprio ai partner: ‘pratiche sbagliate in una supply chain distribuita possono offuscare i brand più prestigiosi’, si legge nel report Ibm.
Ma la decisione di assumere il ‘rischio partner’ prevale: troppo lenta l’alternativa legata all’espansione organica. In conclusione, sono ormai oltre due terzi i Ceo che puntano su partnership estese ad una collaborazione sempre più pervasiva e innovativa. È la prima (53% dei Cio) tra le decisioni strategiche per un cambiamento definito ‘drammatical’ (figura 4). Gli outperformer sono più inclini alla partnership con un’innovazione più radicale: penetrano altri settori e creano un segmento interamente nuovo proprio grazie alle alleanze strategiche.
Sono però raccomandate forme di innovazione collaborativa: relazioni più integrate nelle partnership, condivisione crescente di ambienti collaborativi e, quindi, di dati (e del controllo!). Sono da perseguire approcci ‘di rottura’ e non solo se l’organizzazione non sta performando. In ogni caso, è da valorizzare la collaborazione tra gruppi con una ‘social innovation’: strumenti di comunicazione e controllo condivisi, dati integrati per nuovi insight comuni, governance coordinata.
L’agenda per il Ceo
Le risposte organizzative e personali dei Ceo sono al 90% in sintonia: le differenze stanno nella capacità esecutiva degli outperformer, più in grado di spingere il c-level a cambiamenti organizzativi con un lavoro di squadra. Questa è poi la terza (per il 58% dei Ceo) delle caratteristiche per la leadership emergenti dal campione, dopo le citate ‘ossessione per il cliente’ (68%) e ‘leadership ispiratrice’ (60%). Tutte e tre hanno un notevole allineamento alle omologhe caratteristiche richieste con i clienti (da ingaggiare come individui), con i dipendenti (empowerment basato sui valori) e con i partner (lavoro di team per amplificare il potenziale innovativo).
Del resto i Ceo sanno d’intuito che la loro evoluzione come leader impatta comportamento, cultura e, alla fine, risultati aziendali.
Sull’allineamento fa leva il rapporto Ibm che per ‘l’agenda personale del Ceo’ suggerisce: l’ossessione per il cliente spinga a insight contestuali dei clienti; la leadership ispiratrice motivi i dipendenti con valori condivisi; il teamwork col c-level sia un modello da perseguire sia per ‘coalizioni interne’ sia per le partnership.
Una sfida per il Ceo è che l’innovazione non fluisce dal business ai consumatori, ma in direzione opposta (vedi la consumerizzazione dell’It), dominata dalle nuove generazioni (i digitali nativi). Al Ceo, ‘digitale immigrato’, circondato da connessioni a crescente tecnologia il compito di ‘Learn while leading’, con ‘una dose di umiltà che può esser utile’.
Magazine Luiza ingaggia il cliente, come rivenditore
Un caso di successo nell’ingaggio individuale del cliente è Magazine Luiza, seconda catena di grandi magazzini del Brasile, da sempre proiettato a ‘mantenere un tocco umano in un mondo connesso online’, con una politica di associati che gestiscono veri e propri hub sociali comunicando con video, podcast, blog e tweet. Con ‘Magazine Você’ (il vostro Negozio), i clienti possono creare una loro rivendita con i prodotti da loro scelti e condividerli con amici su Facebook o altri canali sociali: se qualche utente compra un prodotto da questi ‘hub’, il ‘proprietario’ ha da Magazine Luiza una commissione sul fatturato. Ad oggi, sono già emersi più di 20.000 social store, che raggiungeranno molto probabilmente un milione di clienti a un anno dal lancio.