Vi ricordate dell’e-business? Un termine che riempiva aule delle Università, sale convegni, pagine e pagine della carta stampata. L’e-business avrebbe rivoluzionato il mondo, si diceva. L’e-business avrebbe dato vita a quella nuova economia fatta di bit ed autostrade informatiche sulle quali far viaggiare i sogni e le speranze del nuovo millennio. Poi, pian piano, sempre meno. E poi quasi più nulla. L’e-business è scomparso. Scomparso dai giornali, dai convegni, da tutti i consessi pubblici nei quali con tanto entusiasmo aveva fatto parlare di sé, relegato ormai oggi a discussioni tra specialisti.
Sono le implacabili ed inconciliabili logiche dell’informazione e del progresso che si scontrano. Quando un argomento è giornalisticamente “caldo” riempie le prime pagine dei giornali, (si fanno lezioni e corsi di formazione per essere sostituito dal successivo nel momento stesso in cui si dirada l’interesse nei suoi confronti da parte del grande pubblico. Il risultato è che – paradossalmente – si capisce che un cambiamento è davvero compiuto esattamente quando si smette di parlarne. Non c’è più meraviglia nel telefono, quando tutti possono fare una telefonata. Non c’è più incanto nella televisione, dopo che è entrata in tutte le case. Non c’è più fascino nell’e-business, dal momento che le sue logiche hanno pervaso realmente la vita di molte aziende. E così, mentre l’e-business perde il suo prefisso per tornare ad essere semplicemente business e trasmutarsi da fenomeno di studio a realtà di fatto, altri termini, altri fenomeni sono pronti per essere “macinati” dalla macchina dell’informazione.
È quindi la volta del Web, al quale qualcuno – Tim O’Reilly (titolare di una casa editrice americana e “guru” della Rete, ndr) per essere precisi – ha furbescamente attaccato l’etichetta “2.0”, facendo di una normale tendenza evolutiva un vero e proprio fenomeno di disruptive innovation, come la definirebbe Clayton Christensen (professore di Harvard che ha studiato l’effetto delle nuove tecnologie sull’esistenza di una azienda come fenomeno di disruptive innovation, ossia cambiamento rivoluzionario, ndr). Ma il Web 2.0, con qualche colpo ben assestato della sua coda lunga, sta cambiando le regole del gioco. Le cambia mettendo finalmente a sistema le tendenze evolutive della tecnologia da una parte e della società dall’altra, e le une al servizio delle altre con il risultato di trasformare le reti da grovigli di cavi e mucchi di bit in reali strumenti di relazione.
Non è Ajax, né sono i SaaS i veri risultati del cambiamento promosso dal Web 2.0. È il nuovo ruolo delle persone, che da utenti della rete divengono essi stessi “rete”, in un contesto in cui è questo tipo di rete a rappresentare la chiave dei modelli di creazione del valore che dovranno esser cercati nel “nuovo” web. E proprio in questo ruolo della rete, quella delle persone, possiamo vedere chiaramente le dinamiche del fenomeno che – figlio del Web 2.0 ma antropologicamente suo antenato – rappresenta e rappresenterà nel prossimo futuro il “trend del momento”: sino a ieri si è parlato di Web 2.0, oggi si parla di social networking. Domani parleremo d’altro. O sempre della stessa cosa, alla quale dovremo cambiare il nome. I ritmi delle mode e i criteri di notiziabilità mal si conciliano con i tempi della società. Né ieri né oggi ci si rende conto che non è una innovazione discontinua e dirompente quella che sta connotando questi anni, ma il risultato di un lungo percorso evolutivo che è partito ben prima di Tim Berners Lee e che finirà ben oltre Tim O’Reilly e Christian Anderson. Il Web 2.0 è morto. Evviva il Web.
* Stefano Epifani è docente di Comunicazione Interattiva alla Sapienza, Università di Roma. Ha un blog all’indirizzo http://blog.stefanoepifani.it