ZeroUno: È’ ormai un pensiero condiviso che l’innovazione digitale sia una leva imprescindibile per la crescita economica e occupazionale del paese. Ritiene che le organizzazioni italiane, in particolare il settore industriale e la Pubblica Amministrazione, siano pronte per questa sfida?
Elio Catania: Sia nella Pubblica Amministrazione sia nelle le Pmi, ci sono casi di successo; non ne deriva però uno sviluppo a livello di sistema Paese. È interessante notare che dietro tutte le esperienze di successo troviamo un nome e un cognome: di un imprenditore, di un amministratore delegato o di un dirigente, se parliamo della PA. Il messaggio forte è che quest’onda di tecnologia dà risultati solo se applicata a un modello di impresa diverso; se accompagnata a un ridisegno dei processi operativi, a una strategia per seguire i clienti, sviluppare nuovi mercati, integrare i fornitori. Serve di fatto un leader che abbia capito lo straordinario vantaggio che le tecnologie possono offrire. Ancora troppo spesso, invece, si sente di grandi leader che continuano a considerare la digitalizzazione come un problema tecnico da delegare; questo equivale a dire che non ci si occupa del futuro della propria organizzazione.
Oggi, a mio parere, è necessaria la mobilitazione complessiva della classe dirigente pubblica e privata, per chiudere il differenziale digitale, misurabile in almeno 25 miliardi di euro l’anno che dovremmo investire per stare al passo con la media europea. Questa valutazione deriva dal documento “Fattore Ict”, che Confindustria Digitale ha pubblicato con il Politecnico di Milano, da cui emerge che negli ultimi 15 anni, in pratica dall’avvento di Internet, abbiamo accumulato meno capitale innovativo digitale degli altri Paesi.
Zerouno: Come si può rimediare a questo ritardo?
Catania: Ormai non abbiamo più tempo per fare agende e analisi, è il momento di attuare le poche cose che rappresentano le pre-condizioni.
Per la Pa, che va vista come fattore di trascinamento dell’intera economia, vanno messi in esecuzione 7 progetti trasversali già identificati, come già si è fatto per la fatturazione elettronica. Penso, per esempio, a progetti come l’anagrafe unica del cittadino, il fascicolo sanitario elettronico, il sistema dei pagamenti elettronici della PA. Su questi, Agid sta lavorando bene e va solo definito il piano attuativo, con nomi e date. Le risorse, pubbliche, comunitarie e private, ci sono o si possono trovare.
Come Confindustria Digitale abbiamo dato la piena disponibilità e già stiamo lavorando con i ministeri competenti in una logica diversa dal passato, attraverso una collaborazione precompetitiva per condividere le esperienze, anche sfruttando le competenze in progetti internazionali, e co-progettare.
Un’altra leva importante sono le Pmi. Bisogna “mandare a scuola” gli imprenditori, far capire che il loro vicino è riuscito a crescere grazie a un uso avanzato delle tecnologie.
Abbiamo realizzato un’analisi che evidenzia come le Pmi web intensive crescano di 6 punti percentuali in più di quelle che non hanno utilizzato queste tecnologie. L’83% delle imprese fallite lo scorso anno in Italia non aveva un sito.
Per “educare” gli imprenditori stiamo organizzando dei road show per raccontare la bella storia che una Pmi può vivere grazie alla tecnologia.
Vogliamo anche sfatare il mito che la tecnologia riduca l’occupazione: se riuscissimo a chiudere il gap di investimenti digitali, ci sarebbe una crescita di 2 punti di Pil e 800mila nuovi occupati.
Per stimolare gli investimenti delle Pmi in Ict abbiamo anche fatto una proposta al Governo, a cui stiamo lavorando, che prevede un vaucher e l’inserimento di “evangelisti digitali” da affiancare ai responsabili delle Pmi per portare una ventata digitale e per aiutarle a migliorare la presenza on line e lanciare iniziative di e-commerce.
ZeroUno: In questo processo di innovazione, che ruolo sono chiamati a svolgere i Cio, stretti fra quello di garanti dei processi e la necessità di promuovere innovazione?
Catania: Il vecchio Chief Information Officer, gestore dell’infrastruttura tecnologica, serve ancora ma deve sempre più trasformarsi in Chief Innovation Officer che, abbattendo le resistenze culturali, faccia capire all’impresa, a partire dai vertici, che le opportunità che il digitale offre per il business non sono adeguatamente sfruttate. Le imprese che non crescono e non sono redditive, nella maggior parte dei casi, non hanno saputo trasformarsi, hanno resistito al cambiamento, non hanno sfruttato le nuove competenze.
Compito del Cio è anche far comprendere il potenziale rappresentato dai nativi digitali, portatori nelle organizzazioni di nuove regole, nuove competenze, nuovi atteggiamenti; sono giovani donne e uomini consapevoli che il loro successo deriva da quanto sono capaci di creare e innovare. Questo potenziale ha due strade: mettersi in proprio creando startup o entrare nelle aziende. Questa seconda via necessita dell’impegno del top management per farli lavorare con la struttura esistente e il Cio dovrebbe supportare questa decisione per amalgamare le nuove risorse, senza disperderne la loro forza di innovazione.
ZeroUno: L’industria Ict è pronta a questa rivoluzione culturale o dovrebbe, a sua volta, riorganizzare le proprie competenze e le modalità di approccio al mercato?
Catania: Come industria dobbiamo fare un po’ di autocritica; non abbiamo capito che era tempo di trasformare l’offerta, abbiamo mantenuto un approccio troppo tecnico, continuando a parlare di server e banda larga, e non siamo stati capaci di trasformare queste tecnologie in valore per gli interlocutori. Il risultato è stato che, in un Paese come il nostro, riottoso al cambiamento e alla tecnologia, abbiamo mantenuto l’esistente più che innovare a livello sistemico l’economia del Paese. Ma per fortuna ce ne siamo resi conto. Come filiera abbiamo iniziato a capire che è tempo di presentarci al mercato evidenziando meglio quale sia il valore ultimo della tecnologia. Stiamo inoltre lavorando insieme fra più imprese per mettere a punto prefabbricati e metodi di lavoro da proporre, nella PA, nei distretti e nelle filiere industriali.
Come Confindustria Digitale, per dare un contributo al Paese, abbiamo creato sette gruppi di lavoro inter-company in diversi settori per affrontare temi come le piattaforme sanitarie, il sistema dei pagamenti, l’identità digitale…
ZeroUno: Se queste sono le premesse, come vede il prossimo futuro?
Catania: Nel complesso sono ottimista. C’è un’Italia che ha capito e sta correndo. Inoltre siamo il Paese delle tecnologie mobile, l’ambiente verso il quale stanno confluendo le principali soluzioni. Avverto infine una crescente consapevolezza che la digitalizzazione può essere una delle chiavi per uscire dal vicolo cieco della non crescita.
Ci aspettano 24-36 mesi a testa bassa, senza convegni per non perdere tempo, ma con un grande lavoro di cooperazione fra pubblico e privato sia sui fronti tecnici sia su quelli normativi.