L’attenzione crescente che economisti e politici stanno rivolgendo alle piccole e medie imprese nei dibattiti, nelle analisi e nella elaborazione di politiche di sostegno, rappresenta un sintomo evidente della convinzione che su di esse si basa gran parte del possibile recupero di competitività e di crescita del nostro Paese nei prossimi anni. Questo assunto non è tuttavia limitato all’Italia e costituisce oggetto di studio e di proposte da parte di organismi internazionali i cui sforzi sono orientati a individuare strumenti che siano in grado di realizzare una generale trasformazione del sistema delle piccole e medie imprese nell’Europa allargata attraverso lo stimolo a investimenti in innovazione e formazione (si veda in proposito la Istanbul Ministerial Declaration on Fostering the Growth of Innovative and Internationally Competitive SMEs, emanata dai Ministri dei Paesi Ocse nel 2004). Il peso particolare che le Pmi hanno nel sistema produttivo del nostro Paese e le ragioni strutturali delle criticità che esse stanno subendo in questa fase sono note [al tema è dedicata la storia di copertina di questo numero ndr].
L’Italia si caratterizza per un’elevata incidenza di imprese di piccole dimensioni che rappresentano la componente principale del tessuto industriale del Paese e della sua ricchezza, in termini di occupazione impiegata, fatturato e valore aggiunto prodotto. L’elevata presenza di Pmi e, all’interno di queste, la forte presenza di imprese piccole e piccolissime operanti nei settori tradizionali, è la caratteristica principale del nostro sistema imprenditoriale.
Dal confronto tra la struttura del tessuto industriale europeo, visto nel suo complesso, e la situazione italiana, emergono immediatamente le differenze relative al diverso peso delle piccole e medie imprese rispetto alle grandi: mentre la quota di microimprese italiane comprese tra 1 e 9 addetti sul totale di quelle attive in Europa è del 20,7%, quella relativa alle grandi imprese, con un numero di addetti superiore a 250 unità, è pari soltanto al 7,5% (vedi figura1).
Numero di imprese per fascia di addetti
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Fonte: Elaborazioni NetConsulting su Dati Eurostat (2003) e Istat (censimento 2001)
Inoltre, la dimensione media delle imprese italiane è di 3,8 addetti, molto più ridotta rispetto a quella dei principali paesi europei. Il tessuto delle Pmi ha rappresentato nel passato un notevole punto di forza del sistema Italia, basando la propria forza competitiva su una combinazione di fattori, quali i bassi costi di produzione, associati alla qualità dei prodotti del made in Italy, la flessibilità dei cambi in un contesto di mercato favorevole, che ha determinato il successo del nostro Paese sui mercati esteri.
Le ragioni della mancata competitività
La stessa struttura è investita oggi da notevoli criticità che stanno creando problemi, anche di sopravvivenza, in quasi tutti i settori maturi. Le difficoltà che le nostre imprese stanno affrontando sono ben note e questa situazione sta esercitando un impatto strutturale sull’andamento dell’economia italiana nel suo complesso.
Un’analisi recente condotta dall’Ufficio Studi di Banca Intesa ha evidenziato come la perdita di competitività che l’Italia ha registrato negli ultimi anni, in particolare dal 1996 al 2002, sia da attribuirsi per il 60% alle imprese da 1 a 49 addetti, per il 23% a quelle superiori a 250 addetti e per il restante 17% a quelle con un numero di addetti compreso tra 50 e 249, a conferma del maggior dinamismo delle medie imprese (figura 2).
Peggioramento della competitività in Italia (1996-2002)
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Fonte: Ufficio Studi Banca Intesa
Per uscire da questa difficile situazione le Pmi devono, dunque, misurarsi con sfide strutturali che possono generare effetti positivi sul business aziendale se adeguatamente affrontate e risolte, quali: realizzare economia di scala a tutti i livelli aziendali; accorciare il ciclo di vita dei prodotti/servizi; migliorare e velocizzare la comunicazione e lo scambio di informazioni sia all’interno che verso l’esterno attraverso processi sempre più integrati; stringere rapporti più stretti con i partner, per rendere più efficiente la catena del valore, ridurre inefficienze e time to market, saper cogliere o meglio anticipare le tendenze di mercato; aumentare il grado di internazionalizzazione.
Risulta evidente come l’unica strada percorribile per il raggiungimento in tempi relativamente brevi di obiettivi così strategici e ambiziosi sia quella dell’innovazione a tutti i livelli del sistema aziendale (di prodotto, di processo e organizzativa) supportata da una introduzione intensiva di strumenti Ict. Da questo punto di vista, come è noto, le Pmi italiane soffrono di un duplice gap. Il primo è relativo a una scarsa propensione all’innovazione, peraltro evidenziata con molta forza nel Memorandum consegnato al Governo italiano dalla delegazione del Fondo Monetario Internazionale a conclusione della sua recente visita (2 novembre 2005), nella parte in cui si sottolinea come la perdita di competitività del nostro paese non dipenda dall’euro e dalla rigidità dei cambi, bensì da fattori endogeni e, in particolare, dalla resistenza al cambiamento e dalla scarsa capacità innovativa da parte degli attori pubblici e privati del sistema.
Il secondo gap, correlato al primo, è relativo al basso grado di diffusione e alla bassa crescita degli investimenti IT da parte delle Pmi, in particolare di quelle di dimensione minore.
L’innovazione passa dall’it
Le Pmi italiane, spendono, infatti, poco in IT, come confermano anche i dati relativi al 2004: le piccole imprese, ovvero gli oltre 4 milioni di aziende da 1 a 49 addetti, coprono il 18,2% della spesa IT complessiva, le medie imprese (da 50 a 249 addetti) il 23,4%. Al contrario, le grandi imprese che rappresentano solo lo 0,1% del totale delle imprese italiane, circa 3.000 realtà, assorbono il 54,2% della spesa IT. Dall’analisi dei trend dell’ultimo triennio (2002-2004), emergono due considerazioni importanti: le piccole imprese, oltre ad investire poco presentano anche le peggiori dinamiche e nel 2004 hanno ridotto gli investimenti IT del 3,3% a fronte di una ripresa, seppur contenuta, negli altri segmenti dimensionali; le medie imprese, invece, sembrano aver percepito i vantaggi legati alla tecnologia e stanno predisponendo un modello di investimenti IT sempre più vicino a quello delle grandi imprese, differenziandosi dalle piccole (figura 3). In termini di approccio agli investimenti in innovazione, quindi, diventa sempre più evidente la differenza dei comportamenti delle piccole imprese rispetto alle medie e appare ormai improprio parlare indistintamente di Pmi.
Nel segmento delle micro e delle piccole imprese italiane, permane la realtà di una spesa IT ancora limitata, per diverse ragioni: difficoltà legate all’andamento economico generale, scarse competenze e conoscenze tecnologiche, difficoltà a cogliere e a misurare il ritorno dell’investimento rispetto ad investimenti più “tangibili” e strettamente legati ai processi produttivi, come ad esempio quelli in macchinari, scarsa percezione del valore dell’investimento IT in relazione al business. Non ultime, le difficoltà di accesso al credito e il mancato sviluppo di forme di finanziamento innovative, quali il venture capital e il private equity, strumenti che potrebbero rivelarsi particolarmente vantaggiosi nel sostenere validi modelli di business in una fase di congiuntura negativa come quella attuale.
La rimozione di questi vincoli risulta, dunque, indispensabile per stimolare e accompagnare una nuova stagione di investimenti innovativi che deve necessariamente partire dal fitto tessuto delle imprese di dimensione minore, dalla loro capacità di innovare strategie, processi, prodotti e competenze in modo contestuale e integrato. Ma perché questo avvenga occorre creare le condizioni ambientali favorevoli attorno alle Pmi nella consapevolezza che l’innovazione è un processo di sistema al quale devono concorrere tutti gli altri che vi operano: le Associazioni di Categoria, riferimento primario per le Pmi, devono diffondere una cultura dell’innovazione, in collaborazione con istituzioni e fornitori, oltre che erogare servizi legati alle tecnologie, laddove siano presenti all’interno delle associazioni stesse strutture in grado di farlo; gli Enti di Governo dovranno sostenere una politica di incentivi, di cui realmente le aziende possano usufruire, oltre che favorire le aggregazioni di imprese, forme di collaborazione tra imprese ed enti di ricerca, come ad esempio le Università; gli Istituti di Credito dovranno indirizzare le imprese verso le forme di credito più adatte alle specifiche esigenze; i fornitori, dovranno aumentare il loro grado di prossimità alle Pmi e portare sul mercato un’offerta di tecnologie e servizi in grado di rispondere alle loro effettive necessità. Soltanto dal concorso di tutti gli attori nella creazione di un ecosistema per l’innovazione dipenderà la capacità del nostro Paese di riavviare stabilmente una nuova fase di sviluppo.
Andamento della spesa IT presso le Pmi italiane
Fonte: Assinform/NetConsulting