Interaction design, un filo rosso da Ivrea a Copenhagen

Simona Maschi, del Copenhagen Institute of Interaction Design, diventato uno dei più interessanti centri europei di ricerca, formazione e consulenza a livello mondiale, deve
il suo successo alla creazione di team cross-disciplinari che lavorano alla realizzazione di prototipi in una logica artigianale, coinvolgendo fin dall’inizio i potenziali utilizzatori. Spunti di riflessione per modelli collaborativi di sviluppo e innovazione estendibili a numerosi ambiti. Ne parla la co-fondatrice e Ceo
Simona Maschi.

Pubblicato il 17 Giu 2015

Il Copenhagen Institute of Interaction Design (Ciid) attira studenti da tutto il mondo e, nel campo della consulenza, ha come clienti grandi aziende internazionali: Intel, Nokia, Philips,Toyota, Volkswagen per citarne solo alcune. “Un team interdisciplinare – spiega Simona Maschi, co-fondatrice e Ceo di Ciid, che abbiamo incontrato in occasione del Mobile Summit, organizzato da The Innovation Group – è solitamente formato da persone esperte in diverse discipline che fanno il proprio lavoro separatamente e si incontrano periodicamente per scambiare punti di vista e risultati. Noi insistiamo invece sulla necessità di creare team cross-disciplinari, dove le persone con diverse competenze lavorano insieme sul progetto con l’obiettivo di creare un prototipo che diventa la piattaforma su cui si fondono i differenti linguaggi: così non c’è modo di non capirsi”. In Ciid, i team di progetto sono fondamentalmente la combinazione di due gruppi: il primo con skill creativi (designer, artisti, giornalisti, fotografi…); il secondo di provenienza scientifica (matematici, fisici, ingegneri…). Ma è fondamentale soprattutto progettare coinvolgendo fin dal primo giorno le persone che dovranno utilizzare i prodotti.

Simona Maschi, co-fondatrice e Ceo di CIID

“Anche grazie alla tecnologia siamo tornati a un mondo quasi artigianale. Oggi – aggiunge Maschi – c’è la possibilità di fare produzioni di nicchia che, una volta testate, possono eventualmente scalare per realizzare prodotti destinati a un mercato più ampio. Non servono una grande industria e grandi investimenti per cominciare a produrre quantità che coprono una nicchia di mercato”.
Meglio di ogni parola possono spiegare due esempi.
Il Ciid ha sviluppato mappe della memoria (metodo di memorizzazione basato sulla rappresentazione grafica) pensate per persone a cui sia diagnosticato l’Alzheimer in fase iniziale e per le loro famiglie. Grazie a una piattaforma condivisa, basata su tablet e smartphone, è possibile condividere storie ed eventi emotivamente coinvolgenti che vengono rievocati successivamente, quando ci si trova negli stessi luoghi. Questa soluzione può essere proposta anche a persone che, senza essere malate, desiderano condividere le proprie memorie.
Un altro esempio è un prodotto sviluppato per bambini autistici ai quali, quando imparano a scrivere, non è facile insegnare ad esercitare la corretta pressione della penna sul foglio, che rischia di rompersi creando frustrazione e aumentando i problemi di relazione: “Abbiamo studiato una penna, realizzata poi in forme accattivanti, che si illumina per segnalare la corretta pressione. Facendo il testing abbiamo scoperto che tutti i bambini la vorrebbero”.

Da Ivrea a Copenhagen
Simona, dopo una laurea in architettura e un Phd in Industrial Design and Multimedia Communication al Politecnico di Milano, ha lavorato come professore associato e ricercatrice presso l’Interaction Design Institute di Ivrea, la fucina dai cui è nato anche Arduino di Massimo Banzi. Ma chi aveva lanciato quel centro (Telecom Italia e Olivetti) dopo un discreto investimento (8 milioni di euro l’anno per 5 anni), ha deciso di chiuderlo, nonostante i risultati promettenti, per dedicare quelle risorse ad iniziative di marketing.
Simona dopo essersi trasferita a Copenhagen (ha sposato un danese) è riuscita ad ottenere la fiducia del governo danese che aveva in programma di utilizzare fondi per l’innovazione a favore delle persone: “Appena arrivata ho proposto al viceministro all’economia, incontrato precedentemente ad un convegno, la creazione di un centro per l’interaction design che facesse ricerca, formazione e consulenza. Mi ha ricevuto il giorno dopo. Mi è stata data fiducia e un finanziamento – ricorda Maschi – siamo partiti con un team di sei persone di nazionalità diverse. Abbiamo subito pensato: visto che dobbiamo fare un centro sulla prototipazione perché farlo sulla carta? Abbiamo così realizzato un sito web dove la prima frase era: questo posto non esiste, ma se esistesse vorremmo fare scuola, consulenza e ricerca, con questi docenti. In tre mesi abbiamo avuto la richiesta per un primo progetto e ricevuto oltre 140 richieste per la partecipare alla formazione”.
A quel punto i giochi erano fatti: è stato ottenuto un finanziamento per i primi tre anni, con l’obiettivo di trovare un proprio business model, puntando all’autonomia finanziaria.
Oggi arrivano studenti da tutto il mondo e Ciid è considerato fra le prime 25 scuole di design al mondo, svolge attività di ricerca e di consulenza per grandi attori internazionali.
Un esempio è Toyota, arrivata con una sfida di business: “La maggior parte dei clienti (il 78%) che avevano acquistato una Yaris, nel primo anno dopo il lancio, l’avevano scelta sulla base dell’entertainment, in pratica sulla base dei servizi digitali offerti, che non rappresentano esattamente la core competence del settore auto”. La richiesta a Ciid è stata come interpretare, nel mercato europeo, con l’obiettivo di incrementare le vendite, i valori giapponesi su cui l’azienda si basa. Due valori in particolare sono stati assunti nel lavoro Ciid: facilitare le interazioni fra le persone ed essere in simbiosi con la natura. Ne è nata la nuova idea di auto “window on the world” che trasforma la relazione fra i passeggeri dell’auto e l’ambiente circostante: il finestrino diventa un’interfaccia interattiva con la quale “zoomare” il paesaggio o avere informaizoni sull’ambiente circostante.
Fra le sfide non poteva mancare un incubatore: Ciid Nest è un progetto supportato, ancora una volta dal governo danese, dalla città di Copenhagen e da Intel.

La tecnologia per le persone
“Mentre la Silicon Valley è il luogo della tecnologia, i Paesi Nordici sono luoghi dove incubare valore per le persone, per la soddisfazione del cliente, per migliorare la customer experience; luoghi dove la tecnologia ha certo un ruolo, ma al centro c’è la persona”, sostiene Maschi.
Un ragionamento che potrebbe valere anche per l’Italia, con la differenza che queste esperienze non sono per ora supportate né dal governo né da aziende private, che se mai, come il caso di Ivrea dimostra, le hanno chiuse. Ma Maschi è fiduciosa: “In Italia ci sono molte chance per fare innovazione come quella a cui noi puntiamo – sostiene – Ma bisognerebbe innanzi tutto comunicare i casi positivi, non necessariamente di successo, ma che almeno indichino nuove strade. L’Italia ha grandi potenzialità: la capacità di gestire l’imprevisto e di inventare opportunità di impresa dal nulla; la capacità di creare relazioni basate sulla fiducia, fondamentale per le nuove iniziative. E, da ultimo, penso alle opportunità evidenziate da David Rose nel suo ultimo libro “Enchanted objects” [imprenditore di successo che è anche co-docente del corso su “tangible user interfaces” al Media Lab del Mit, ndr], dove mette in evidenza come oggi le persone comincino ad essere stanche di passare la vita davanti a uno schermo e che dunque gli oggetti cominciano a riprendere spazio. In questo campo l’Italia ha un vantaggio che pochi altri paesi hanno: la cultura della bellezza, l’estetica. Ho molta speranza”, conclude.

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