Italia, un futuro da Disneyland?

Pubblicato il 02 Set 2004

Non a caso “le acque cominciano ad agitarsi” oggi. Ci riferiamo alla crescita di quel dibattito culturale, ma che traguarda concreti obiettivi di ordine economico e competitivo dell’Italia e delle sue imprese, in atto nell’ultimo anno nel nostro Paese, circa la necessità di “risvegliare le coscienze e gli ingegni” tecnico-scientifici, così abbondanti in Italia quanto spesso incapaci (per scarsità di supporto economico, normativo, culturale, politico e quindi di “contesto”) di assurgere a forza trainante dello sviluppo economico e culturale del Paese.
Il dibattito assume, a seconda dei personaggi e dei contesti, sfumature sociologiche o concreti inviti a superare l’attuale situazione italiana di “impasse”.
Ad esempio, come indirizza la recente proposta del sociologo Giuseppe De Rita, effettuata a giugno, nel corso di un convegno in cui è stata presentata la mostra “Per fili e per segni. Ingegno italiano e società dell’informazione” (che si terrà in autunno nell’ambito di Genova 2004 – capitale europea della cultura) è necessario avvicinare la tecnologia alle persone, “umanizzarla” se si vuole davvero che questa diventi pervasiva nella nostra società e non si limiti ad essere usata da esperti, appassionati o avanguardie elitarie destinate a restare tali.
Invece, come stimolo a forzare le cose per cambiarle, bisogna accettare la sfida dell’innovazione, come ha sollecitato Giampio Bracchi, presidente della Fondazione Politecnico di Milano, respingendo il luogo comune secondo il quale l’Italia è il paese delle cose semplici (quasi con un futuro, ormai segnato, soltanto da “parco dei divertimenti” fondato su arte, cucina e bei paesaggi), rivendicando piuttosto un passato di intelligenze che ha generato risultati eccellenti in ambiti tecnico-scientifici quali le Tlc, il nucleare, il farmaceutico, solo per citarne alcuni.
Insomma, si va rafforzando un dibattito legato al ruolo della conoscenza, delle competenze e delle capacità tecnicoscientifiche italiane per dare una nuova risposta alla sfida di rilanciare l’Italia in settori strategici generando benefici sul piano dell’occupazione, della competitività dell’impresa e, fattore di considerazione primaria tutto italiano, anche della qualità della vita, oggettivamente in fase di peggioramento nonostante il diffuso benessere. La questione sul tappeto non è un raffinato esercizio culturale tra le “intelligenze” del nostro Paese (di convegni in cui ci si parla addosso se ne fanno fin troppi); il punto è delicatissimo e la sfida impegnativa: che tipo di risposta può dare l’Italia, con le sue imprese, ad un processo mondiale di ridefinizione economica tra nazioni più forti, più grandi della nostra, “affamate” di benessere e in pieno boom economico? Come mantenere specificità e valore all’interno di un sistema globalizzato nel quale la barriere protezionistiche hanno sempre meno valore e mostrano tutta la loro limitatezza e miopia?
Non abbiamo la risposta, semplice e univoca. Sarebbe troppo bello! Però la strada per una differenziazione del Sistema Italia, all’interno di uno scacchiere mondiale sempre più aggressivo sul piano economico, sempre più distribuito nelle competenze e nelle intelligenze, passa da una forte valorizzazione del patrimonio di conoscenze presenti nel Paese e nella sua capacità di canalizzare queste competenze all’interno di aree di eccellenza che possano rappresentare modelli trainanti per la nostra crescita economica ed anche culturale.
E proprio per far luce e capire come stanno sviluppandosi, anche in Italia, questi Sistemi per l’Innovazione, affrontiamo un percorso di analisi di alcuni tra i principali “cluster high tech” europei, iniziando in questo numero (vedi la Storia di Copertina) per proseguire nei prossimi mesi. Li chiamiamo così, ma si possono identificare più chiaramente come “distretti tecnologici” da distinguere dai più tradizionali distretti industriali. Questi “cluster di innovazione” hanno una serie di caratteristiche precise e tra essi comuni: si sviluppano in un territorio ben definito; creano ricchezza a livello locale e associano differenti attori in quella che l’autore dell’articolo definisce efficacemente come la “danza dell’innovazione”, proprio perché i soggetti che la compongono sono alla costante ricerca dell’innovazione tecnologica e hanno la capacità di trasferirla efficacemente in progetti e prodotti, associando in questo sistema-rete realtà come Università, parchi scientifici, imprese, incubatori e venture capitalist, società di servizi che supportano gli altri attori attraverso consulenze di tipo manageriale, legale, produttivo per trasformare in prodotti i progetti di ricerca; non scordando, infine, il ruolo non secondario delle amministrazioni locali e della loro funzione di “cinghia di trasmissione” sia all’interno del cluster sia, in collegamento con le altre amministrazioni, nella diffusione di esperienze e modelli sull’intero territorio nazionale.
Tutto questo si è imposto, in Europa come, in alcuni casi, anche in Italia (vedi gli esempi delle “technology valley” di Trieste, Catania, Firenze) quale esempio di cultura innovativa che genera risultati economici, nuova competitività e definisce un sistema virtuoso di crescita su cui si dovrebbe porre attenzione.
Proprio sulla valorizzazione di queste realtà, sulla necessità di valutarne i modelli e i risultati per supportare una loro crescita attraverso finanziamenti, agevolazioni e creazione di “contesti favorevoli” si potrebbe identificare quella strada concreta di cui si diceva, da intraprendere per “riportare agli antici sfarzi” la cultura scientifica italiana applicata alla crescita economica del Paese.
Probabilmente, è una delle ultime strade da seguire per consentire all’Italia di spendersi, sullo scenario economico mondiale, un valore aggiunto che non la releghi soltanto al ruolo, sia pur economicamente rilevante ed importante, di una Disneyland, il paese delle vacanze, del sole e del mare, ma che le consenta di proteggere, mantenere e sviluppare quelle competenze scientifiche, quella capacità di innovazione e di imprenditorialità che senza un’adeguata valorizzazione e supporto difficilmente reggeranno l’urto di un nuovo scenario economico mondiale. “Come mai – ha provocatoriamente detto Bracchi – Cambridge e Pisa, in competizione quando fu progettato il primo computer, hanno seguito percorsi così differenti?” La prima è un vero cluster hi-tech con una forte funzione di traino allo sviluppo economico e all’innovazione, la seconda ha perso gran parte del suo potenziale innovativo. Attendere ancora molto prima di darci risposte concrete potrebbe esserci fatale.

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