“The Rise of Collaboration in Managing Business Performance”. Questo il titolo della tavola rotonda che ha segnato la conclusione della prima giornata di lavori alla recente Tagetik User Conference 2010, tenutasi a Lucca. Il dibattito ha riunito alcuni dei relatori più autorevoli dell’evento: Rita Sallam, Analyst Researcher Gartner; Evan Rosen, esperto riconosciuto a livello internazionale in strategia della collaborazione e della comunicazione e testimonial d’eccezione della conferenza dove ha presentato il suo libro, “The Culture of Collaboration” (vincitore della medaglia d’oro nel 2008 dei premi Axiom Business Book – ndr), fortemente legato al tema dell’evento; il responsabile finanziario di un’importante azienda di moda italiana (che preferisce non essere menzionato); Bani Brandolini, President International Tagetik; Bob Baker, Director BI Partner Strategy Microsoft; Massimiliano Calogero, Partner KPMG Advisory (qui sotto in una foto di gruppo).
Pur riportando alla platea la loro diretta esperienza e ciascuno il proprio punto di vista, la discussione è stata caratterizzata da un unico “fil rouge”: parlare di collaboration all’interno delle aziende richiede una forte intesa da parte degli utenti che devono, prima di tutto, “volere” la collaborazione.
“La collaboration, perché sia efficace, richiede il consenso delle persone che ne dovrebbero essere coinvolte”, sostiene Rosen che presso The Culture of Collaboration Institute, guida un team interdisciplinare di ricercatori ed esperti in strategia (l’istituto realizza ampie ricerche su ogni singolo aspetto della collaborazione e lavora con le aziende affinché adottino modelli di gestione basati sulla collaborazione). “La mia personale definizione di collaborazione, infatti, è: lavorare insieme per creare valore, sia nel mondo fisico sia in quello virtuale. Quando parlo di cultura della collaborazione in azienda, mi riferisco a tre distinti elementi che però formano un tutt’uno, ossia consenso, processi, tool”.
“La collaborazione, sia come fatto culturale aziendale, sia come scelta di strumenti tecnologici finalizzati al miglioramento dei processi decisionali – interviene Sallam – dovrebbe essere vista dal top management come opportunità per strutturare anche quei processi che, solitamente, sono destrutturati ma che possono avere un diretto impatto sui decision maker”.
Rosen, seppur in leggero contrasto con gli aspetti di eccessiva strutturazione (“la formalità è il veleno della collaborazione”, dice), porta all’attenzione della platea il concetto di change management, “politica strategica necessaria per guidare il cambiamento senza la quale non può avere successo alcuna implementazione tecnologica”, osserva. “Nonostante gli utenti aziendali, soprattutto i più giovani, siano già abituati a utilizzare strumenti di collaborazione come chat, instant messaging, blog e forum, strumenti di social networking, ecc., condividere le informazioni e sviluppare una capacità di cooperazione richiede formazione (culturale, prima di tutto) e un cambio procedurale nello svolgimento delle operation che non sempre, anzi quasi mai, è di facile attuazione”.
“Il cambio culturale e procedurale – conferma Calogero – sta alla base di un qualsiasi progetto di collaboration. Il ruolo delle società di consulenza assume, in quest’ottica, un importante significato: queste fanno da catalizzatori nella definizione della strategia e del governo del processo di change management”.
La “triangolazione” Tagetik, Microsoft, Partner/Consulenti è l’aspetto su cui Brandolini insiste più volte nel corso della tavola rotonda, enfatizzando anch’egli quanto sia basilare avere una roadmap evolutiva che individui e segni il passo del cambiamento: “dalla propagazione della cultura collaborativa in azienda, alla definizione dei processi di cooperazione, attraverso l’implementazione degli strumenti più adatti”.
E sugli strumenti tecnologici ha molto da dire il responsabile finanziario dell’azienda di moda che, in rappresentanza di una realtà internazionale, condivide con i partecipanti le criticità di una realtà molto legata alla gestione del cash flow. “Gestire il cash flow in diversi paesi è molto complesso e richiede un contatto diretto quotidiano tra le differenti realtà e la direzione finanziaria centrale – osserva il direttore finanziario -. Per noi gli aspetti di collaboration sono fondamentali e incidono direttamente sulle performance finanziarie (e di business) del gruppo. In Cina, per voler fare un esempio concreto, le regole finanziarie e amministrative sono completamente diverse da quelle europee e cambiano molto di frequente. Per gestire le operazioni finanziarie, controllare le performance di Gruppo e avere un governo del business efficace sul piano delle decisioni, dobbiamo rimanere in costante contatto con le persone locali”.
Infine, un aspetto basilare per dare concretezza agli sforzi compiuti è rappresentato dalla misurazione. “Per raggiungere una cultura collaborativa aziendale in grado di innescare migliori processi decisionali – osserva Baker – non vanno dimenticate le metriche con cui misurare costantemente tutta la catena del collaborative decision making. Metriche che poi, a loro volta, sono soggette a revisioni e miglioramenti proprio grazie alla collaboration e alla capacità delle persone di innescare processi di business alla cui base c’è la condivisione e la cooperazione”.
“Tra gli elementi primari della collaborazione ci deve sempre essere il consenso che si misura attraverso i feedback – conclude il responsabile finanziario dell’azienda di moda -. Collaborare, per noi, significa avere un confronto tra tutti gli attori interessati in un processo; non si chiede agli impiegati un sì o un no ma dei feedback da condividere ed è ovvio che ciò si raggiunge se alla base c’è fiducia e trasparenza. Laddove si riesce a creare questa cultura si realizza un cambio nella ‘relazione lavorativa’ che, anche attraverso metriche, misurazioni e controlli, facilita i processi (aumentandone la produttività) e migliora le performance (finanziarie e di business)”.