Smart Working è una realtà. Nel new normal, le aziende devono decidere se cambiare concretamente paradigma, affrontando una trasformazione culturale, organizzativa e tecnologica, o se insistere con un telelavoro che non crea particolare valore. Nonostante ci siano più di 5 milioni di smart worker in Italia contro i 570 mila del 2019 (fonte: Osservatorio PoliMI), e Bankitalia ci dica che l’82% delle aziende avrebbe avviato il remote working, la spaccatura tra le due fattispecie permane: se il telelavoro, infatti, è una sorta di adattamento del modello tradizionale alle esigenze di oggi (pandemia inclusa), il lavoro agile si fonda su una nuova esperienza lavorativa incentrata sull’employee experience e finalizzata a massimizzarne il coinvolgimento, ovvero l’engagement. Tutto ciò condurrebbe, secondo l’autorevole Gallup, a un forte aumento di produttività e, soprattutto, fino a un +21% di profittabilità.
La trasformazione dell’azienda e l’employee centricity
Trattando in modo specifico di esigenze attuali dello smart worker, si corre il rischio di partire dalle soluzioni tecnologiche, che pur sono fondamentali. In realtà, come qualsiasi percorso di trasformazione, l’abilitazione tecnologica dà sostanza a un processo di cambiamento che è più profondo rispetto a permettere l’accesso remoto (e sicuro) agli strumenti di uso quotidiano e una comunicazione rapida e moderna.
Oggi, la prima esigenza dello smart worker è quella di essere centrale nel paradigma di lavoro adottato dalla sua azienda. Jacob Morgan, autore del manuale The Employee Experience Advantage affermò in era pre-pandemica (2018) che le aziende avrebbero dovuto investire in modo consistente per creare un luogo in cui le persone volessero davvero lavorare, non uno in cui fossero obbligate a farlo. Con la pandemia, il luogo è diventato una commistione di esperienze fisiche e virtuali – non per niente si parla di modelli di lavoro ibridi –, ma il concetto della centralità dell’employee resta vivo in qualsiasi modello di lavoro agile. Per prima cosa, quindi, le aziende devono riflettere su come dare centralità al lavoratore, permettendogli non soltanto di replicare “da casa” l’esperienza dell’ufficio, ma anche di essere più produttivo, motivato, connesso e coinvolto nella vita dell’azienda.
Investire in employee experience significa permettere ai dipendenti di comunicare efficacemente a prescindere da dove si trovino (con lo smart working, tutti diventano firstline worker), ma anche favorire il loro benessere fisico e mentale, mettere a loro disposizione percorsi di formazione e crescita professionale, creare community e gruppi di interesse, permettere loro di gestire ed eseguire processi collaborativi da remoto e favorire il più possibile il loro empowerment, che potremmo tradurre con responsabilizzazione. Tornando a un concetto parzialmente già espresso, lo smart worker non desidera “lavorare da casa”, ma definire autonomamente il modo con cui raggiungere i suoi obiettivi professionali, senza vincoli di spazio e orario: questo responsabilizza le persone, permette loro di gestire al meglio il rapporto tra vita personale e lavorativa e crea engagement, da cui tutte le positive conseguenze in termini di produttività – personale e di team – e di profitti.
Il percorso è chiaramente complesso, perché mettere il lavoratore al centro, disaccoppiando l’esperienza dallo spazio, dall’orario e dal dispositivo utilizzato significa fare perno su una cultura capace di sorreggere il lavoro smart, su un’organizzazione basata sulle performance e non sulle ore di lavoro, e su un corredo di strumenti con cui replicare – e migliorare – l’esperienza tradizionale a casa, durante le trasferte, in viaggio, in un co-working, in biblioteca, su un aereo e ovunque sia possibile vivere l’employee experience. Smart Working non deve essere un premio per qualche dipendente, bensì il modo usuale con cui l’azienda opera ogni giorno.
La tecnologia che abilita e modella il Modern Work
Passando dalla teoria alla pratica, in che modo l’azienda può soddisfare uno smart worker che intende acquisire centralità nelle dinamiche aziendali pur trascorrendo molto meno tempo nei suoi locali? Poste tutte le premesse culturali e organizzative di cui sopra, che peraltro rendono fondamentali i percorsi di change management, il cuore del discorso passa dall’abilitazione tecnologica, senza la quale non è possibile parlare di smart working o di lavoro moderno.
Molte aziende, se non vengono correttamente affiancate nel percorso di cambiamento, in questo frangente possono commettere degli errori. Il primo è pensare che abilitare una piattaforma di UCC (Unified Communications & Collaboration), magari assistita dagli indubbi benefici del cloud (UCaaS) sia l’inizio e la fine del percorso. Per quanto la comunicazione unificata e gli strumenti di collaboration siano fondamentali nell’universo del lavoro smart – Microsoft ha infatti dichiarato, a inizio pandemia, un aumento di utilizzo di Teams in Italia del 775% in un mese – solo le aziende con un livello elevato di maturità digitale, intesa in senso olistico, possono attivare un vero modello smart e non una semplice variante di telelavoro. D’altronde, la comunicazione multicanale (voce, testo, video) è fondamentale al giorno d’oggi, ma tra le esigenze dello smart worker c’è anche poter accedere agli strumenti di produttività, al software gestionale (ERP) e a quelli dipartimentali, oltre a poter gestire documenti e task collaborativi senza l’obbligo dell’incontro in presenza. Tra le esigenze degli smart worker c’è quella di poter eseguire i processi da remoto, il che peraltro presuppone che siano digitalizzati: quelli che non lo sono, vanno ripensati in digitale e strutturati in modo tale da ridurre il carico di lavoro sui dipendenti grazie (anche) all’impiego di tecniche di automazione intelligente (Robotic Process Automation + Artificial Intelligence).
Soddisfare le esigenze degli smart worker: le sfide e gli obiettivi dell’IT
Dal punto di vista di chi gestisce il comparto tecnologico, realizzare quanto sopra apre delle sfide importanti perché molte aziende, oltre a limiti di digitalizzazione dei processi, si basano ancora su sistemi di comunicazione, produttività e collaborazione frammentati e non integrati, tipici di un mondo ben lontano dalle attuali esigenze degli smart worker. La frammentazione crea i silos e abbatte la produttività a causa della mancanza di interconnessione e di user experience non omogenee. A tal proposito, un aiuto di valore viene dal cloud, che permette all’azienda di affrontare percorsi di cambiamento profondo senza il limite dei corposi investimenti iniziali, l’esigenza di competenze di cui il mercato è avaro e la complessità dei processi di procurement, che tradizionalmente hanno rallentato l’evoluzione digitale dell’azienda. Inoltre, grazie all’accessibilità del cloud, diventa molto più semplice riunire tutta la popolazione aziendale in un unico ambiente, raggiungendo anche il personale sul campo che ha sempre sofferto di un’eccessiva lontananza dalla cultura aziendale.
Per soddisfare le esigenze di empowerment dei dipendenti, l’obiettivo deve essere quello dell’unica piattaforma integrata in cui ogni lavoratore, compresi quelli che operano in produzione, logistica, a contatto col pubblico ecc, abbia tutto l’indispensabile per svolgere le proprie mansioni e comunicare/collaborare ogni giorno col resto dell’azienda, a prescindere dalle sue dimensioni e dalla complessità organizzativa. Tutto questo, ovviamente, deve essere assistito da livelli di sicurezza e compliance senza compromessi: va favorita, grazie anche all’intervento di partner specializzati, la security awareness, oltre alla protezione di identità, endpoint, infrastruttura e dati, il tutto a creare un ambiente sicuro, conforme alla normativa di riferimento e alle policy aziendali. In questo modo, oltre a soddisfare le esigenze di centralità e di empowerment dell’employee, l’azienda rafforza la business continuity e si protegge da minacce – interne ed esterne – che sono in continua crescita.