Prospettive

Il Design thinking per l’innovazione, fra small e big data

In occasione della presentazione del Report 2020 dell’Osservatorio Design Thinking for Business si è discusso del ruolo dei dati nel processo di Design Thinking, andando ad analizzare la contrapposizione o la possibile integrazione fra small data e big data, dietro i quali ci sono diversi processi culturali che guidano i modelli di innovazione abilitata dal design.

Pubblicato il 29 Giu 2020

Design Thinking 2020

Quali sono i dati più preziosi, fra big data e small data in un progetto di Design Thinking e quali offrono maggior supporto, soprattutto nella fase iniziale di divergenza ed esplorazione? Con questa domanda Cabirio Cautela, direttore dell’Osservatorio Design Thinking for Business del Politecnico di Milano, ha stimolato la discussione fra i partecipanti al panel.
Mentre gli small data sono legati a esperienze utente specifiche, sono facilmente comprensibili e gestibili dal designer, i big data, grandi per dimensioni e complessità, sono analizzabili solo con il supporto di computer potenti con l’obiettivo di cercare inferenze, individuare traiettorie, creare segmenti di utenti.

foto Cabirio Cautela
Cabirio Cautela, Direttore dell’Osservatorio Design Thinking for Business del Politecnico di Milano

Integrare small e big data, eliminare i silos

L’idea prevalente fra i partecipanti alla tavola rotonda è che non ci sia vera contrapposizione fra small data e big data ma si debbano integrare, andando a capire quando usare gli uni o gli altri. Lo sostiene Roberta Capellini, service design lead, di Avanade che porta ad esempio due casi opposti. In un concept innovativo, dove si partiva da un foglio bianco, Avanade ha scelto di raccogliere small data per cercare una comprensione in profondità, avere una visione olistica del fenomeno e poi generalizzare i risultati. In un progetto di e-commerce, di innovazione incrementale, sulla base di una grande quantità di dati a disposizione, è invece partita dall’analisi dei dati in collaborazione con i data scientist, per capire che cosa non stesse funzionando; si sono poi raccolti gli small data per capire i perché, andando così a interpretare i dati quantitativi.

foto Roberta Cappellini
Roberta Capellini, Service Design Lead di Avanade

“Innovare, a differenza dell’efficientare, è un momento creativo specifico della natura umana che può essere supportato, non sostituito dalla tecnologia; il designer umano, che va mantenuto al centro del processo, deve prestare attenzione ai dati di dettaglio e ascoltare il rumore bianco che proviene da informazioni solo in apparenza poco significative ma dentro le quali si nasconde una grande ricchezza”, spiega Gabriele Cafaro, Digital Technical Director, Design Group Italia.
Se si deve prestare attenzione a quanto sostenuto da Martin Lindstrom, nel best seller Small data. I piccoli indizi che svelano i grandi trend. Capire i desideri nascosti dei tuoi clienti, il 60-65% delle principali innovazioni delle nostra epoca è basato su small data. Per Cafaro il problema non è scegliere fra small data e big data ma, parafrasando Mark Twain, evitare la tentazione di usare i dati come gli ubriachi i lampioni, più per sostegno che per illuminazione.

foto Gabriele Cafaro
Gabriele Cafaro, Digital Technical Director, Design Group Italia

Focus sui dati anche per Elisa Franzioni, head of digital channel management, Poste Italiane: “Vengo dal design con un percorso legato all’innovazione. Ho imparato a gestire i dati in Poste Italiane che, come tutte le grandi aziende, dispone di grandi moli di dati molto complessi; il tema è come rendere il dato actionable”.
Tradotto significa riuscire a realizzare l’analisi dei comportamenti dei clienti e metterla in relazione con i fenomeni di mercato offrendo ai creativi e ai designer le leve per progettare esperienze efficaci e soprattutto coerenti.

foto Elisa Franzini
Elisa Franzioni, Head of Digital Channel Management di Poste Italiane

Un approccio simile è stato seguito da TIM, in un ambito molto specifico se pur complesso come quello della creazione di assistenza per il customer care tecnico. “È stato il progetto più complesso dove abbiamo tratto vantaggio da un approccio Design Thinking – spiega Gabriele Elia head of open innovation &research Ovviamente non si può prescindere dai big data, con tante chiamate, messaggi, contatti e dati non strutturati da gestire, ma contemporaneamente servono anche small data per far coesistere competenze tanto diverse”. TIM è così riuscita a fare passi avanti, mettendo a frutto dati non strutturati che da anni cercava di utilizzare, per creare più empatia nel modo di lavorare fra le persone.

foto Gabriele Elia
Gabriele Elia, Head of Open Innovation & Research di TIM

Alessandro Piana Bianco, Strategic and Experience Design Director, Deloitte Digital, insiste a sua volta sul bisogno per il Design Thinking di utilizzare sia gli small data sia i big data. “Il Design Thinking può essere il motore di mediazione per consentire a tutti di parlare e comprendere lingue diverse, in grado di rompere barriere e silos – sottolinea – Purtroppo ci portiamo dietro silos ereditati anche dal design: mentre i big data sono il campo di battaglia del business designer, i small data, con un’ottica più qualitativa, sono soprattutto il campo del service/product designer”.
Un approccio condiviso da Cappellini: “Credo che ci si debba dimenticare dei silos ma dottare team interdisciplinari con la presenza di persone con backround diversi: researcher, designer, data scientist…”.

Alessandro Piana Bianco, Strategic and Experience Design Director di Deloitte Digital

Antonio Grillo, Service & UX design director, Digital Entity, ribadisce che big data e small data entrambi necessari e insostituibili. “I big data servono soprattutto per indicare la direzione, ma non sono facilmente accessibili, la loro qualità non sempre è adeguata e solo esperti riescono a manipolarli in modo sapiente senza commettere errori – evidenzia – Gli small data sono spesso più adatti, facili da utilizzare, più manipolabili”.
La soluzione che Digital Entity sta progettando (AIDA, Artificial Intelligence Design for Autism), per migliorare il dialogo complesso tra familiari e insegnanti di bambini autistici, è indicativa dell’approccio suggerito da Grillo. “Invece di partire direttamente con reti neurali e intelligenza artificiale, da educare attraverso i big data, abbiamo fatto tanta ricerca sul campo e usato altre tecniche diverse per capire i bias correlati agli attori del contesto. Siamo così riusciti a costruire il data set per istruire al meglio il machine learning, combinando i big data con una famiglia di componenti come sensori distribuiti sugli oggetti con i quali interagiscono i bambini, sensori ambientali e wearable.

Antonio Grillo, Service & UX design director di Digital Entity

Se Grillo sembra attribuire grande valore agli small data, sul versante opposto Alessandra Fidanzi, SVP Digital Delivery Unit di Eni, dichiara apertamente la sua preferenza per i big data, indispensabili per estrarre valore da informazioni e relazioni che l’azienda custodisce e che offrono opportunità che non si intuiscono usando metodi classici. “È importante far comprendere il ‘superpotere’ che possono esercitare sui big data, grazie alle tecnologie, alle persone del business coinvolte – sottolinea – Questo momento di consapevolezza le porta a rimuovere quei vincoli legati al contesto, a ragionare sui dati, a trovare la soluzione originale, facendo scattare la divergenza, una divergenza che converge poi nella trasformazione digitale”.

foto Alessandra Fidanzi
Alessandra Fidanzi, SVP Digital Delivery Unit di Eni

Il Design Thinking abilita un nuovo approccio al data management

Lo sostiene Cautela nelle sue conclusioni: “Le stesse logiche di iterazione tipiche del Design Thinking aiutano il dialogo continuo e il confronto fra quanto emerge dai big data e dagli small data”.
Cautela evidenzia che il Design Thinking rappresenta un’opportunità per far parlare un linguaggio nuovo al mondo big data che risente di modelli vecchi e concetti legati al data mining. “È utile creare nuove relazione con i dati deboli e i cosiddetti thik data, legati al contesto e non svincolabili da esso, ma capaci di illuminare le strade su cui puntare per l’innovazione”.
L’invito finale è dedicato alla necessità di nuovo approccio per formazione dei nuovi designer, che dovrebbe prevedere discipline STEM. “Quando mettiamo i designer di fronte ai numeri, evidenziano una scarsa familiarità – conclude – Anche se i designer non sono destinati a diventare manipolatori di dati, per affrontare il nuovo design che guarda in modo sempre più spinto all’utilizzo dei dati, dovranno avere strumenti interpretativi adeguati”.
Bene dunque i team multidisciplinari nel design, ribaditi in molti interventi, ma per collaborare davvero serve anche acquisire un linguaggio comune.

Design Thinking 2020

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