Oddio, è cambiata l’informatica e non me ne sono accorto!

Pubblicato il 25 Giu 2008

Se ne parla da un po’. Eppure, ne siamo certi, non tutti hanno capito il fenomeno. Non tutti hanno capito che ci troviamo, con la nostra piccola barca su un fiumiciattolo che ha preso una precisa direzione e che, fra qualche anno, fiume imponente, chissà dove ci avrà portato. Stiamo parlando del cloud computing, quel fenomeno che, detto in termini più appealing, porta ogni risorsa elaborativa di cui abbiamo bisogno all’interno di quella “nuvola” rappresentata da Internet. Tecnologie che consentono oggi ai computer di essere collegati via web e di agire come sistemi unici, unitamente a connessioni veloci ormai disponibili in modo diffuso, rendendo praticabile un sogno che parte da lontano: fruire di applicazioni e servizi It in una modalità “a servizio” o “a consumo”, se preferite, paradigmando ciò che è oggi per noi la fruizione di energia elettrica rispetto a quando, tanti anni fa, ogni impresa, con difficoltà, competenze e costi, se la produceva in proprio.
Ci sono molti modi di chiamare questa rivoluzione: utility computing, software as a service ed altro ancora. Di fatto, i nostri pc stanno ritornando ad essere terminali (“ritornando” se uno pensa alle esperienze architetturali dei sistemi informativi di impresa degli anni ’70-’80): utilizzano potenza e servizi applicativi scaricandoli dalla rete (Internet) alla quale sono collegati, rete la cui potenza è costituita da altri computer tra loro interconnessi. Ecco allora un’altra definizione per ribadire lo stesso concetto di fruibilità dal Web: il world wide computing.
Ma pensiamoci un attimo. Quali sono le applicazioni che più servono oggi alla nostra azienda: contabilità? Crm? Business intelligence? Che altro? Potenzialmente ogni applicazione, anche la più complessa, possiamo fruirla in modalità “electricity” dal Web. Perché devo creare costosissimi, complicatissimi data center costituiti da server, connessioni, costose competenze in risorse umane sempre più difficili da trovare, software complessi e costantemente da aggiornare – applicativi, data base – data warehousing, per riuscire a garantire un’infrastruttura informativa il cui prodotto, le applicazioni e i servizi che mi servono per il business, potrei teoricamente prenderli, per l’utilizzo che mi serve, dalla Rete?
La risposta non è semplice. Forse perché i tempi tecnologicamente non sono ancora maturi e perché i fornitori non hanno ancora elaborato un modello di proposta alternativa e in modalità “service on demand” che consenta loro di non essere “spazzati via” da questo fenomeno. Ma certo i segnali che il ruscello sta diventando fiume ci sono tutti. Guardiamo a cosa sta succedendo sul piano della fruibilità individuale.
La storia ci dice che tecnologicamente in passato, ancora prima degli anni novanta, quando cioè l’inventore del world wide web, Tim Berners-Lee consentì una facile navigabilità di Internet, resa poi estrema dall’arrivo dei più noti browser di navigazione intuitiva (Netscape ed Explorer), esistevano prime forme di elaborazione centralizzata erogata attraverso servizi: le BBS – Bullettin Board System. Queste permettevano a utenti esterni di connettersi attraverso una linea telefonica per attivare funzioni di messaggistica e file sharing. Era un sistema le cui radici risalivano fino alla metà degli anni 70 (le Bbs sono diventate poi dei veri e propri centri di diffusione del concetto filosofico di “condivisione” che ha poi portato al movimento del free software e del software open source). E se oggi stiamo guardando a modelli di fruibilità di applicazioni in una logica cloud computing, scaricata cioè in modalità “on demand”, è perché sta rapidamente maturando un’idea e un’esigenza che parte da lontano. Non è una questione di “ultima moda”, ma un’esigenza di conoscenza, condivisione e partecipazione che riguarda la natura umana.
Non ci importa davvero di sapere come vengono mantenuti o aggiornati i software che ci consentono di usare You Tube, Google Search, Yahoo mail, Facebook, Wikipedia, oppure quelli che servono (e su quali server risiedono) quando facciamo on line banking, spostiamo soldi da un conto all’altro o seguiamo (tracking) il percorso della nostra merce che abbiamo affidato ad un corriere. Tutto ciò è già possibile oggi, a livello individuale. Il punto è capire perché tutto questo non dovrebbe essere sempre più reso possibile per gli applicativi “enterprise”.
Sul fronte dei fornitori Ict lo stravolgimento, in prospettiva, sarà totale. Ogni grande player che attraverso l’affermazione del modello classico “divide et impera” ha negli ultimi vent’anni proliferato e costruito le proprie fortune (con il modello “vendo tanto hardware e tanto software sempre uguale al maggior numero possibile di utenti”) sta rapidamente analizzando e disegnando il proprio business model guardando anche alla modalità “on demand” (metto i miei servizi applicativi sul web e li erogo secondo modalità di pagamento e di fruibilità da definire). Capite di quale portata di rivoluzione stiamo parlando. Se il computing diventa una utility io, come fornitore, devo completamente rivedere il mio modello di business. Ed è proprio in quest’ottica che assumono ragionevolezza i quasi 50 miliardi di dollari (!!) proposti da Microsoft a Yahoo! per acquistarla. Il modello Google, in pratica, sta esprimendo sul piano della fruibilità individuale quello che potrebbe succedere all’interno del mondo business. E Microsoft non può stare a guardare… E che dire dello spostamento di Ibm sempre più verso l’erogazione di servizi IT e, ultima in ordine di tempo, l’acquisizione da parte di Hp di Eds per 15 miliardi di dollari, diventando così, dopo Ibm il secondo fornitore mondiale di servizi?
Anche Sap, l’archetipo della robustezza, talvolta a scapito della flessibilità, modello riconosciuto di informatica tradizionale con il proprio storico Erp, sta lanciando “costruzioni di moduli applicativi” scaricabili dal Web. Si tratta di prime forme di una rivoluzione in corso che, è probabile, ci porterà lontano. E le imprese utenti hanno il dovere di guardare attentamente il fenomeno per coglierne efficacia, vantaggi economici e nuovi modelli di business attuabili.
Naturalmente, come per ogni passaggio importante, avremo con ogni probabilità forme ibride di utilizzo (tradizionale-provisioning). Ma è certo, come per ogni cosa che riguarda l’evoluzione del mercato, che sarà la convenienza economica delle persone e delle aziende a spingere in una direzione di utilizzo piuttosto che in un’altra. Sul piano sociale ci giungono alcune riflessioni di Nicholas Carr, scrittore e attento osservatore dei fenomeni tecnologici, economici e sociali, venuto alla ribalta qualche anno fa con il suo celebre libro che tanto fece dibattere nel nostro settore “It doesn’t matter?” (in cui attribuiva all’It un ruolo di commodity individuando altrove, per le imprese, i veri elementi di diversificazione competitiva).  Alla vigilia della pubblicazione italiana (prevista per settembre) del suo nuovo best seller “The Big Switch”, in cui viene appunto analizzata “la grande svolta”, cioè il passaggio da un utilizzo tradizionale (come persone e come imprese) dell’informatica ad una fruibilità nella logica dell’utility computing via Web, Scarr ricorda alcuni aspetti negativi che sempre accompagnano le grandi evoluzioni nella storia dell’uomo. Una su tutte il pericolo stesso del Web come elemento sempre più centrale dell’evoluzione sociale ed economica del mondo. Il Web sta diventando infatti quel riferimento primario attraverso il quale non solo prendo informazioni ma collaboro, partecipo a comunità, scarico prodotti e servizi, condiziono, con il mio utilizzo singolo moltiplicato per il numero di persone che appartengono alla mia stessa comunità, le modalità con cui fruisco dell’informazione, creo io stesso informazione, ma non solo.  Riesco a incidere in qualche modo sui modelli comportamentali ed anche economici delle industrie e dei governi (cosa ne avremmo saputo del terremoto in Cina se non ci fosse stato You Tube? Quanti prodotti sono stati ritirati dal mercato perché difettosi e rifiutati dai consumatori se non ci fossero state le user communities? Quanto è aumentato il peso dell’opinione pubblica e le risposte della politica grazie ai blog? E così via…). Tutto ciò diventa estremamente condizionante ma anche vulnerabile. Quanti computer sono oggi oggetto di attacchi, manomissioni, utilizzi fraudolenti che possono generare situazioni di criticità in rapporto all’aumento dell’importanza che Internet può avere? Quali elementi oltre che di aggregazione anche di disgregazione sociale possono derivare da Internet nel momento in cui può venire meno quel senso di comune identità (Carr la definisce la “colla della società”) portato avanti dai mass media così come fino ad oggi li abbiamo conosciuti? Domande di carattere sociologico alle quali non è semplice dare una risposta ma che è bene tener presenti perché più la Rete diventa centrale e più avrà anche oltre agli aspetti positivi quelle connotazioni tipiche della storia dell’uomo: non siamo, purtroppo, una community coesa e felice, ma ci dividiamo e ci combattiamo. E il Web è sempre più lo specchio del mondo.

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