Offshore capire prima di agire

Di questo emergente fenomeno, l’importante è conoscerne bene tutte le facce. In tale modello di fornitura globalizzata, le decisioni di sourcing, ossia quali servizi trasferire in paesi lontani, si incrociano infatti con quelle di delivery, cioè come e dove farlo. L’offshore è una scelta strategica che deve però essere ponderata, tenendo ben presenti tutte le variabili coinvolte

Pubblicato il 02 Apr 2005

Data l’attualità della tematica, riproponiamo sull’online un servizio esteso sull’offshore di recente pubblicato su ZeroUno

Vedi anche Le opportunità in Europa e in Italia


Offshore: riteniamo che la complessità della tematica imponga una premessa forse un po’ didascalica, ma necessaria per collegare i fenomeni in seguito descritti: partiamo quindi con delle definizioni, che ruotano attorno ai concetti, spesso fra loro confusi, di outsourcing e offshore, e che fanno riferimento alla figura 1

figura 1
Modello di fornitura globalizzata

Fonte: ZeroUno da documentazione Gartner, marzo 2004

Sourcing: attività aziendale, tipica nella funzione It, ma comune in tutte le funzioni aziendali, di individuazione e responsabilizzazione di risorse per realizzare un servizio. Per una dato servizio, il sourcing può attuarsi con risorse interne all’azienda o trasferendone la responsabilità, contro compenso annuo, a un Fornitore Esterno di Servizi. Si parlerà nel primo caso di Insourcing e nel secondo di Outsourcing.

External Service Provider (Esp): è il Fornitore Esterno di Servizi cui si trasferisce la responsabilità di servizi con la pratica dell’Outsourcing. Prima dell’avvento della globalizzazione un Esp è sempre stato per definizione “Onshore”, cioè nello stesso Paese del cliente che ne acquista i servizi. Negli articoli di questo servizio, quando il contesto lo già rende esplicito, l’espressione “outsourcing”, senza ulteriori specificazioni, sottintende che la fornitura di servizi è esternalizzata onshore. Dove invece potrebbero sorgere dubbi, si incontrerà l’espressione “Outsourcing Onshore”.

Offshore: un servizio fornito da un Esp basato in un Paese a oltre 500 miglia dal Paese G7 dell’impresa fruitrice, a un costo base del 50% inferiore all’equivalente onshore (Forrester). Si potrà incontrare l’espressione Offshore puro per rimarcare il caso dell’impresa che si rivolge direttamente all’Esp offshore; o viceversa Offshore ibrido, laddove l’impresa si rivolga al tradizionale Esp onshore, negoziando l’utilizzo di risorse offshore di quest’ultimo, con relativa riduzione di prezzi del servizio.

Nearshore: un servizio fornito da Esp basato in un Paese a meno di 500 miglia dal Paese G7 dell’impresa fruitrice, a un costo base inferiore tra il 20 e il 30% all’equivalente onshore (Forrester).

Capability: insieme di processi aziendali che realizzano una determinata missione (per esempio Approvvigionamento). Una Capability può essere sia collocata presso una funzione aziendale, sia realizzata in collaborazione da più funzioni aziendali (per esempio Manufacturing e Ufficio Acquisti).

Capability sourcing: il sourcing di un’intera capability che si riduce in tal modo ad un insieme di servizi grande a piacere. Anche per l’intera Capability parleremo di casi di insourcing o di outsourcing.

Per una panoramica su un fenomeno globale come l’offshore, ZeroUno si è impegnato in ricerche presso varie fonti, coinvolgendo trusted advisor del calibro di Gartner e Forrester, attori con ruolo primario in Europa come Atos Origin e cercando conferme sullo stato dell’arte in Italia presso Assinform.

Lo sottolineiamo solo per condividere con chi vorrà leggerci la seguenti percezioni: che l’effetto offshore è sottostimato in Italia forse perché visto non applicabile; che non ci chiederà il permesso nell’arrivarci addosso, con implicazioni varie su chi lavora sia nel fornire che nel ricevere servizi It; che può essere tutto ben considerato un’opportunità; che ci è comunque dato solo scegliere fra subirlo in una misura tanto più traumatica quanto più saremo impreparati, o gestirlo con politiche aziendali e sociali adeguate, il cui primo passo, come in tutti trend, passa per sostituire sottostima con “awareness”: ed è precisamente un contributo di consapevolezza quello che ZeroUno si augura di fornire.

Il ricorso al pool globale delle risorse
Mentre la decisione make or buy (insourcing o outsourcing) nell’It è un classico con oltre trent’anni di storia, la decisione onshore o offshore nasce con la globalizzazione. L’It aziendale, nei Paesi dell’Unione europea come in America, è nella tenaglia fra competizione globale sui costi (con quelli operativi e amministrativi nel mirino) e prezzi esorbitanti di competenze It pregiate (in media, secondo uno studio Forrester, un architetto di sistemi informativi a Londra fattura in outsourcing 140.000 sterline/anno, il 40% in più dello stipendio di un direttore marketing londinese). Con la globalizzazione, ecco scatenarsi il fenomeno offshore, innescato dai bassi costi dell’infrastruttura Ict richiesta e di skill di base in paesi emergenti (solo in India, sia pure su tutte le branche tecniche in generale, si laureano ogni anno qualcosa come 2 milioni di persone di madrelingua inglese). A proposito: per un architetto di sistemi indiano perfettamente paragonabile al collega di Londra, le 140.000 sterline diventano 41.000.
E la vecchia domanda “make or buy?” va dunque aggiornata in termini di fornitura globale. Nasce un modello che Gartner chiama appunto Modello di Fornitura Globalizzata (vedi figura 1 a pag. 83), in cui con le decisioni di sourcing (di “quali servizi” tenersi la responsabilità e quali trasferire – contro compenso annuo – a un fornitore, alias External Service Provider o Esp), si incrociano quelle di delivery (il “come e dove farlo”: le modalità e la località in cui i servizi vengono resi). L’offshore dunque non è che un sottomodello di delivery remota, in cui l’azienda può scegliere fra tre opzioni per sfruttare l’opportunità delle risorse offshore. Una riguarda il Make globale, in cui l’azienda costituisce una propria sussidiaria offshore. Le altre due concernono il Buy globale, dove l’azienda si trova davanti a un nuovo bivio: affidarsi, per la global delivery, all’organizzazione del fornitore oppure puntare su un più drastico fai-da-te, in cui l’approvvigionamento diretto di risorse disintermedia l’Esp e diventa il modello di delivery proprietario aziendale. La dicotomia make-buy vale così, oltre che per il sourcing, per lo stesso modello di Global Delivery offshore.

La scelta offshore
La combinazione di “come e dove” non è scelta facile: il “dove” (le geografie di contesto) influenza il “come” (la scelta, fra le tre opzioni, di quella più consona allo “stile” aziendale) e viceversa. Partendo dalle tre opzioni, è facile intuire che, spostandosi verso l’alto dal make al buy i costi operativi e di startup si abbattano, ma che crescano rischi e costi per mantenere il controllo, garantire la sicurezza, la privacy e la proprietà intellettuale. Chiaro dunque che su tali scelte è determinante il profilo aziendale, ed è quindi comprensibile che gli stessi advisor qui si fermino nell’analisi generale, per offrire consulenza specifica alla singola azienda.
Ma è altrettanto chiaro che ci sono Paesi candidati a localizzazioni di risorse offshore che, da un lato, mitigano costi e rischi e, dall’altro, rendono produttivo l’investimento. La geografia dei Paesi candidabili come “It Offshorer” sta diventando una scienza, con una lista di fattori-paese abilitanti che vanno dalla ricchezza del “labour pool”, ai costi professionali e dei servizi, alle infrastrutture, al sistema universitario, alla stabilità politica, alla sicurezza per dati e proprietà intellettuale, alle politiche governative di agevolazioni. Ultimi, e non per importanza, la lingua e la “compatibilità culturale”, fattori che tenderanno a favorire nel Vecchio Continente la costituzione di assi alternativi oltre a quello per antonomasia fra Uk e India: Canada (inglese) e Messico (spagnolo) giocheranno sulla vicinanza agli Usa; Mauritius, Caraibi, ancora Canada, si proporranno come area francofona; l’Est Europeo per Germania e Italia; i paesi sudamericani per la Spagna. La polarizzazione linguistico-culturale a sua volta dipenderà dal servizio erogato in offshore: un call centre ha impatti diversi di uno sviluppo applicativo, così, per esempio, per l’Italia Israele può essere un candidato attraente per lo sviluppo, ma meno per un call centre, che potrebbe essere invece argentino o polacco. Gli operatori che parlano la lingua nazionale del chiamante ricorrono ai “nickname” (Giovanna invece di Galina) e ricevono training anche sugli accenti. C’è una lista di fattori-paese inibitori da tener presente, con valutazioni che richiedono giudizi di livello geopolitico: dai rischi di sicurezza (gli standard nazionali di sicurezza dell’informazione), all’esposizione della privacy (leggi a protezione e loro grado di attuazione effettivo), ai rischi di intercettazione governativa (regolamentazioni sull’accesso governativo, controlli di encryption), ai rischi per la proprietà intellettuale (leggi sui brevetti, sulla confidenzialità commerciale, sul copyright e loro gradi di applicazione), ai rischi contrattuali e legali, alle stesse leggi sull’impiego e sul lavoro.

La penetrazione per linea di servizio
Detto tutto questo, il mercato offshore alla data è quasi monopolizzato dall’India, con due nazioni clienti come Usa e Uk: Gartner parla di una share fra l’80% e il 95% del fatturato planetario e di un dominio che “troverà un concorrente solo, la Cina”, la cui offerta è per ora “allo stato nascente”. Ma il panorama, per noi europei, comprende almeno anche Irlanda del Nord e Irlanda, Israele, Sud Africa, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria e Russia, per ciascuno dei quali c’è una combinazione di fattori abilitanti più o meno attraenti.
E “quali servizi” finiscono – e finiranno sempre più – in offshore? Quelli in cui si punta ai maggiori risparmi di costo del personale o alla maggior maturità per recuperi produttivi o meglio ancora alla combinazione di entrambi, come si vede in figura 2 a pag. 84.
Dominio quasi incontrastato degli indiani, la galassia dello sviluppo applicativo è di fatto l’unico in cui risparmi e incrementi di produttività si combinano. Sia Bpo (Business Process Outsourcing) che R&D meritano un discorso a parte (vedi ultima parte dell’articolo che inizia a pag. 85). Dove prevale la motivazione risparmio/commoditizzazione è nei call centre, nei servizi infrastrutturali (back-office bancari ad esempio), nelle packaged application (molti Intellectual Property providers di chip lavorano in offshore): sono tre “market mover” potenti che hanno appena incominciato a dispiegare la loro azione.
Prendiamo i call centre: secondo Thames Research (11/2004), nel mercato Usa, su oltre 50.000 call centre che impiegano quasi 2,9 milioni di agenti, ne chiuderanno 3.000 entro il 2008, con 140.000 posti di lavoro in meno, in migrazione verso Canada, India, Messico e Filippine. Secondo McKinsey, sette banche su dieci, di quelle continentali Ue (fra cui certo le nostre) rispetto alla soluzione estrema di farsi la sussidiaria offshore in India (come ad esempio ha fatto la HongKong e Shanghai Bank Corp., www.hsbc.com), sono piuttosto focalizzate sull’imperativo di contrastare la pressione sui margini per reinnescare una crescita flessibile e puntano su un outsourcing “Ict e funzioni operative connesse” che valga un 15-20% dei costi totali: nel mirino oltre a infrastrutture Ict anche aree operative come sistemi di pagamento e segmenti di gestione titoli o crediti; ne nasce la ricerca di accordi (“globali”) propiziati da una corretta valutazione del profilo rischio-opportunità connessi ad un “pacchetto” sia di responsabilità che di competenze (leggi risorse) annesse da esternalizzare, cioè di un intero sottoramo di azienda.
La scommessa per l’Esp controparte sarà di fornire lo stesso servizio con superiori economie di scala.

La corsa verso il mercato della delivery globale
Da sempre i servizi esternalizzati poggiano su tre dimensioni, e in una proposta si troverà in una situazione migliore il fornitore capace di combinarle in maniera ottimale; se non in assoluto, quanto meno in relazione alle specifiche esigenze dell’azienda.
Contano le capacità operative, ma resta fondamentale la competenza nei processi di business, articolata per domini di settore ed efficace in termini di soluzioni per il business.
Terza dimensione indispensabile è il governo della relazione, che deve coprire dalla cultura locale e di settore, alle pratiche commerciali, ai contatti col senior management. I trusted advisor sono concordi nel prevedere la “corsa” alla leadership in Europa dei grossi nomi (Ibm, Csc, CapGemini, Atos), che, partendo dai loro punti di forza su relazione e processi, magari in ordine sparso, stanno alacremente lavorando per rafforzare le loro capacità operative offerte a livello planetario, arrivando a far lavorare 24 ore su 24 anche tre squadre continentali, una in America del Sud, una sul fuso Europeo e una in area Pacific. Forrester predice che tra i (pochi) Global Delivery Service Provider che si spartiranno il mercato europeo nel 2010 figurerà almeno un outsider (che si affiancherà ai big): una società di servizi offshore, naturalmente, già leader sulle capacità operative, che si espanderà nei processi di business e nella relazione regionale, acquisendo una grande società europea di servizi onshore. Così come l’indiana Wipro (www.wipro.com), che ormai conta oltre 30.000 dipendenti, è già “sbarcata” in Usa e vi ha acquisito NerveWire, società di consulenza aziendale. Si delinea insomma una corsa alla convergenza sulla global delivery fra “onshorer” forti sui processi verticali e sulla relazione e “offshorer” forti sulle capacità operative globalizzate. In Germania c’è un detto che rende l’idea dell’imperativo di tale convergenza, per penetrare il non facile mercato tedesco: “Qui si può comprare qualsiasi prodotto ed in qualsiasi lingua, ma si vende solo in tedesco”. La Delivery Globale richiede capacità remote a basso costo e di vendita/supporto locale ad alto valore; e le due componenti si devono integrare a costituire le nuove catene del valore nei servizi IT globali.

figura 2
Le linee di servizio It più gettonate in offshore

Fonte: Gartner, marzo 2004

Perdita di posti di lavoro, Europa a due velocità
Si aggira per l’Europa lo spettro della perdita di posti di lavoro, paralizzando decisioni imprenditoriali forti nelle aziende del Vecchio Continente. Situazione che riguarda le aziende di tutta Europa, tranne quelle di area Uk e irlandese che Forrester descrive come “leader nel ricorso a servizi offshore oggi e negli anni a venire”. Nasce quindi da questa considerazione la caratterizzazione delle due velocità per l’Europa.
Colpiscono le proiezioni Forrester per il 2005, il 2010 e il 2015: dai 136.000 ai 502.000 a 1.171.000 “posti di lavori Ue emigrati verso l’offshore”. Ma più che a spaventarsi sul dato di 1,2 milioni di posti di lavoro previsti complessivamente lasciare l’Europa in dieci anni, Forrester invita a riflettere sulla parte del leone fatta dalle Isole Britanniche che manderanno offshore rispettivamente 99.000, 322.000 e 770.000 posti di lavoro.
La maggior determinazione nell’affrontare oggi il problema di ricollocarsi internazionalmente, e bisogna pur dirlo, minori resistenze dal contesto politico sindacale, consentiranno alle aziende della prima ondata di ottimizzare le opportunità di vantaggi economici offerti dalle efficienze offshore; mentre le aziende della “seconda ondata” rischiano di decidersi quando il differenziale dei costi si sarà ridotto, con rischi conseguenti che Forrester intravede per la competitività di alcune grandi banche continentali e con probabili scenari di sbarchi europei di Esp indiani, come Wipro o Tata Consultancy Services, a proporsi come Global Service Delivery Provider.
Lo spirito giusto per affrontare l’offshore, dice in sostanza Forrester, sta come in tutte le innovazioni di processo, nel puntare a massimizzare la finestra di opportunità, nella fattispecie il differenziale dei costi del lavoro. Che scenderà entro il 2008 – concorda Gartner – con le tariffe indiane in risalita dal 35% al 60% rispetto alle tariffe onshore, rimanendo pur sempre decisivo a favore dell’offshore nel 70% dei casi. E ancora, Gartner ci aiuta a ridimensionare lo spettro della delocalizzazione offshore, mettendola nel contesto della spesa globale in Servizi IT su scala mondiale, a sua volta decomposta in servizi interni ed esterni. I numeri crescono da 1.086 miliardi di dollari (di cui 606 miliardi di dollari esterni) nel 2004 ai 1.219 miliardi di dollari (di cui 728 miliardi di dollari esterni) a inizio 2008, anno in cui i servizi offshore sono stimati superare i 50 miliardi di dollari. Stiamo parlando di un’espansione della fetta offshore dall’attuale 2% a un 7% dei servizi esterni, un aumento più correlato a una crescita fisiologica che non a una vera e propria destabilizzazione del modello di business.

Best practice per il sourcing globalizzato
Claudio Da Rold nell’intervista dedicata a Gartner (vedi riquadro in questo stesso articolo) ci riassume per sommi capi quelle che sono ormai best practice sperimentate per far funzionare un’esternalizzazione a un Esp in offshore. Un’impresa che debba realizzare un make globalizzato deve affrontare quattro fasi, alternativamente strategiche e tattiche: strategia di sourcing, valutazione e selezione, sviluppo del contratto e gestione del sourcing. Strategica la prima, tattiche la seconda e la terza, di nuovo strategica la quarta.
In strategia di sourcing occorre anzitutto far chiarezza sugli obbiettivi perseguiti, quindi identificare prerequisiti al successo e competenze “core” necessarie, e compiere un’analisi comparata di rischi e opportunità rispetto ai propri obiettivi, guardando anche alla distribuzione internazionale del business aziendale (Reuters ha così selezionato nel 2001 la Tailandia e non l’India come sede per una fabbrica di software e servizi). Con valutazione e selezione si entra nella fase pratica, con selezione del fornitore e delle attività da esternalizzare, e la cruciale decisione sul pilota: c’è da affrontare un cambiamento del modo di fare un pezzo di It, che richiede una maturità del processo, per cui non basta un pilota limitato e prova solo di se stesso; serve una vera trasformazione che è di fatto percorso di apprendimento della delivery globale. Per farlo bisogna utilizzare un numero adeguato di Full Time Equivalent (risorse continuativamente impiegate) perché con un sottodimensionamento di queste risorse non si ottengono risultati significativi. Con lo sviluppo del contratto si mette in piedi un modello di governo delle decisioni, si valuta e si decide sulle implicazioni per le risorse umane, prima di scalare dal funzionamento del pilota all’azienda a regime (gestione del sourcing). C’è tutto il tema della modellizzazione del costo dell’intero progetto, che non si riduce ovviamente a pensare in termini di delta sul costo orario delle persone, dato che il progetto si sviluppa su fasi esternalizzabili in modo differenziato (il disegno delle specifiche nella parte alta non è demandabile, va fatto con i costi del paese), mentre si può dare in offshore la parte di sviluppo e test (ma non l’integrazione): l’obbiettivo dichiarato dai fornitori in offshore è di mantenere un equilibrio offshore/paese del tipo 80/20, o 70/30. Al total cost of engagement (Tce) si arriva definendo team di lavoro e mettendo in fila tutta una serie di attività (selezione fornitori, checklist, visite, verifica referenze, contatti con persone, capire la cultura, fare il contratto,ecc.). E in gestione del sourcing vanno contemplati il cruciale Change Management e, naturalmente un Management remoto che deve essere previsto e realizzato. Lo start up di un’iniziativa offshore ha un peso significativo che va poi ammortizzata su una quantità di lavoro, sviluppo o manutenzione significativa, altrimenti non si giustifica.


PROSPETTIVE DELL’OFFSHORE PER L’IMPRESA
Nell’intervista con Claudio DaRold, VP & Distinguished Analist di Gartner e Chairman del Summit Gartner su Outsourcing & Servizi It, abbiamo cercato di identificare quali prospettive si profilano per le aziende europee rispetto al fenomeno offshore.

ZeroUno: Come si è innescato il fenomeno offshore?
Claudio DaRold
: Con le grandi multinazionali. Grazie alla decennale presenza su mercati e in paesi diversi, esse hanno incorporato i fattori produttivi locali nelle loro strategie. La delocalizzazione, partita nel manifatturiero, si è estesa ad aree di servizio, prima ai processi people-intensive, poi all’It. Gli Esp di It offshore si sono sviluppati con la bolla di fine millennio e col picco di richiesta di capacità IT, per poi sfruttare dal 2001 la richiesta di riduzione di costi nei servizi IT. Leader incontrastati fra gli Esp offshore puri nel mercato US e Nord Europeo sono gli Indiani, per i bassi costi del lavoro, l’ottimo livello delle università, l’inglese madrelingua e la competenza in processi produttivi e di qualità.

ZeroUno: E nel mercato It quali impatti ha creato la crescita dei fornitori offshore?DaRold: Innanzitutto sociale: la delocalizzazione nel manifatturiero toccava i colletti blu, mentre nei servizi (e nell’hi-tech) tocca i colletti bianchi e quindi il ceto medio. Di qui le risonanze mediatica e politica del fenomeno, fin nella recente campagna presidenziale Usa. Inoltre la crescita a due cifre dell’offshore puro ha innescato quello ibrido: gli Esp tradizionali hanno reagito costituendo direttamente, tramite acquisizioni o partnership, capacità offshore in modo da competere anche sul prezzo con i nuovi venuti. È nato il modello di Delivery Globale. Infine si è scatenata l’emulazione: oggi si contano oltre 50 paesi che si propongono per l’offshore It. Gartner li classifica su tre livelli: Leader e Challenger (es. India, Cina, Irlanda, Filippine, Russia, Sud Africa, Canada, Repubblica Ceca); Emergenti (es. Australia, Brasile, Singapore, Bulgaria, Lituania, Mauritius) e Nuovi entranti (es. Argentina, Slovenia, Marocco, Turchia, Senegal). Lingua, cultura e vicinanza geografica e di business costituiscono altrettanti differenziatori.

ZeroUno: Quale proposta di valore porta l’offshore all’impresa? E, rovescio della medaglia: quanto “pesa” l’offshore nell’It e in termini di posti di lavoro?
DaRold: A cosa puntano le aziende per affermarsi sul mercato? Ad espandersi sul mercato interno ed estero, ad incrementare la produttività a ritmi superiori alla concorrenza, a un differenziale competitivo e innovativo, cruciale per processi produttivi, di vendita e supporto su scala globale. L’offshore si propone come strumento di maggior produttività diretta e indiretta, conseguente all’innovazione di processo che si persegue associandola all’esternalizzazione. La relazione off-shore-impiego-produttività è complessa e di non facile interpretazione. Ma un fatto è certo, la risonanza mediatica fa dimenticare che il peso dei servizi It esternalizzati in offshore resta relativamente circoscritto. Secondo nostre proiezioni la fetta offshore sul totale dei servizi esternalizzati It crescerà dall’attuale 2% a un 7% in quattro anni. Quanto all’impatto occupazionale, alcune analisi Usa riconducono la “jobless recovery” Usa (2003-2004) molto più ad aumenti di produttività da investimenti in automazione accumulati che da ricorso all’offshore. Per l’Europa, Gartner non ha sinora consolidato una previsione quantitativa. Inibisce certamente la proliferazione dell’offshore una certa resistenza dei clienti europei all’utilizzo dei call centre remoti. Ma ciò che soprattutto rallenta la pressione competitiva dell’offshore in un Paese sono i differenziali di tariffe IT minori rispetto alle risorse offshore (ed è il caso dell’Italia) o il fatto che forniscano essi stessi servizi nearshore.

ZeroUno: Qual è allora lo stato dell’arte dell’offshore nel nostro paese?
DaRold: Prevalgono fattori di inibizione. In primis l’off-shore è adatto a grandi aziende multinazionali, e questo sappiamo non è il caso delle nostre imprese, salvo rare eccezioni. Sono elementi frenanti, almeno con gli indiani, anche cultura e lingua. Non ultima, la stessa crisi nel mercato It, perdurante da fine 2002, con conseguenti abbattimenti di tariffe professionali e disponibilità di professionisti sul mercato. L’alto tasso di disoccupazione al Sud potrebbe addirittura candidare il nostro Mezzogiorno come possibile localizzazione produttiva nearshore per l’Europa. Pesa infine il fatto che dal 2002 poche aziende hanno investito in innovazione e competitività. Morale, anche se intravediamo segnali di cambiamento, alla data in Italia prevale una percezione “scettica” sull’offshore. Mettendo l’Italia e i Paesi emergenti sulla curva dell’innovazione rispetto alle sfide della globalizzazione, noi stiamo indubbiamente nell’avvallamento della disillusione (acuita dall’ingresso nell’Euro e dall’impossibilità di utilizzare le leve del passato come indebitamento e svalutazione), da cui, non c’è verso, si esce solo incrementando competitività e produttività. Una delle leve è il ricorso alle due facce (pericolo/opportunità) della globalizzazione e quindi anche all’offshore; naturalmente servono anche volontà di fare, sfruttamento dell’innovazione in logica di sistema, motivazione al successo. I paesi emergenti, viceversa, stanno all’inizio del ciclo: ricorrente tra gli osservatori internazionali è il commento che vi si respira la stessa voglia di crescita e ricchezza che c’era in Italia negli anni del boom. (R.M.)

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