“Il nostro obiettivo è di trasformare la ricerca in prodotto, i ricercatori in imprenditori, le startup in imprese, con un focus sul digitale”, esordisce Vincenzo Russi, Presidente, Ceo e co-fondatore di e-Novia, in occasione dell’evento conclusivo dei Digital360 Awards.
I partner scientifici dell’azienda sono il Dipartimento di ingegneria dell’Università di Bergamo e il Politecnico di Milano, con ulteriori collegamenti con le Università di Siena e di Trento, i principali Politecnici italiani e, più in generale, con i centri di ricerca specializzati in meccatronica, sistemi di controllo e tecnologie industriali.
Le competenze interne sono soprattutto nel campo dell’elettronica, dell’informatica, della meccanica, della bioingegneria, con circa cento persone, in gran parte ingegneri, una quarto dei quali con PhD. Si arriva a 170-180 persone con le startup create. C’è anche tanta competenza nel campo del design: “Ci stiamo specializzando non più su Human Machine Interface (HMI) ma su Human Robotic Interface (HRI), una nuova tendenza che prevede l’interazione con una macchina intelligente che predice prevede e persuade, capace dunque di anticipare le esigenze e di interagire”, aggiunge Russi, che sottolinea: “Abbiamo portato e trattenuto a Milano talenti”.
Secondo Russi è importante sfruttare alcune specificità italiane evidenziate anche da interlocutori internazionali dei più famosi ecosistemi dell’innovazione. “Ci viene riconosciuto di avere le migliori università al mondo e, a differenza di alcuni distretti, come la California e Israele (all’avanguardia rispettivamente sul software in generale la prima, e su fintech e cyber security, il secondo), abbiamo uno straordinario tessuto industriale e la cultura degli ingegneri che ci aiuta a essere concreti”, sottolinea Russi.
e-Novia punta a cogliere questa opportunità generando valore (figura 1). Anche grazie a questi risultati l’azienda, nata solo da tre anni, è stata premiata dal Financial Time come società a più elevata crescita in Eu.
e-Novia: due catene di montaggio per una ‘fabbrica di imprese’
Il modello adottato è quello di ‘fabbrica di imprese’ che rappresenta l’evoluzione di due fasi precedenti: quella degli incubatori, dove prevaleva l’idea che fosse sufficiente ospitare in uno spazio fisico le startup per farle crescere, e quella degli acceleratori, ancora in campo, con l’offerta di servizi sempre più specializzati (figura 2).
e-Novia genera startup dall’interno, a partire da una collaborazione con la ricerca che si basa sul finanziamento diretto di progetti: “Partecipiamo all’attività e forniamo le linee guida – spiega Russi – Quando nasce un’idea che si può trasformare in un’invenzione e generare un prototipo, operiamo in base a regole condivise di acquisto della proprietà intellettuale e di tutte le componenti utili per il progetto. Le persone di e-Novia trasformano un’idea intangibile in un’invenzione, con l’obiettivo di produrre oggetti fisici”.
Due esempi fra i tanti: un veicolo autonomo ultraleggero per lo spostamento di piccoli pacchi in ambito urbano e un ammortizzatore elettronico per bici basato su intelligenza artificiale.
Il modello di “fabbrica”, per passare dall’idea al prototipo al prodotto finale definito da e-Novia, prevede due catene di montaggio: l’invention foundry e l’enterprise foundry.
Una volta arrivati al prototipo, il Comitato Investimento di e-Novia stabilisce se questo può essere alla base di una nuova impresa, riconoscendo quote della società ai giovani ingegneri e ai professori che partecipano (figura 3).
Terminata la prima fase che vede soprattutto il lavoro degli ingegneri PhD, specializzati nella componente tecnologica, nella seconda catena di montaggio entrano in gioco gli ingegneri MBA, che traducono il progetto tecnologico in impresa grazie alle risorse umane, la contrattualistica, la produzione, il controllo di gestione…
Il risultato del lavoro, i prodotti finali, sono 22 società create in tre anni in quattro settori (smart transportation, Mobility-as-a-service, Med Tech e Smart Factory) con una valutazione di mercato che dipende dagli investitori professionali.
Non tutte le imprese ce la fanno. “Alcune società muoiono se la tecnologia o il mercato non sono maturi o se il prezzo proposto non regge”, conclude Russi.
Il modello fidget-spinner di PoliHub
Il processo di valorizzazione della ricerca e trasferimento tecnologico messo in atto dal Politecnico di Milano prevede più passi che vanno dallo scouting tecnologico e le attività di licensing, fino alla creazione di imprese, alla loro incubazione e lancio sul mercato grazie a PoliHub, acceleratore e Innovation District, creato per abilitare la collaborazione fra startup hitech, università e grandi imprese. La mission è supportare le startup innovative con un business model scalabile, favorendo i processi di cross-fertilization fra l’Università e le imprese che vogliono innovare.
“Il PoliHub è un luogo pieno di energia, grazie a ragazzi che si mettono in gioco e rischiano in una logica imprenditoriale, seguendo un percorso sconosciuto per arrivare in un posto sconosciuto, progettato però per essere fantastico”, dice Stefano Mainetti, CEO di PoliHub, nel suo intervento ai Digital360 Awards.
Il modello fidget-spinner, adottato per consentire una proficua collaborazione fra startup e imprese, si basa su tre momenti: Startup Intelligence, Mentorship Program, Innovation District (figura 4).
Startup Intellingence. Il programma proposto da PoliHub promuove la contaminazione fra l’ecosistema delle startup e le imprese che puntano all’innovazione come fattore critico di successo. Il presupposto è che le imprese debbano conoscere l’ecosistema delle startup e delle tendenze tecnologiche per poter interagire con loro. “Se so che su blockchain sono stati investiti 15 miliardi di dollari lo scorso anno, comprendo che se non presidio questo settore sarò spiazzato”, esemplifica Mainetti.
Le aziende che aderiscono al programma inviano i propri innovation manager per analizzare cosa stia accadendo per ciascun dominio di business e come si muovano le startup. Si prendono in considerazione, in particolare, le startup finanziate negli ultimi 3 anni, se ne analizzano i trend e si mettono in contatto gli innovation manager fra loro. “Abbiamo creato la community italiana più consolidata degli innovation manager, con 208 partecipanti lo scorso anno”, ricorda il CEO di PoliHub.
Mentorship Program. La cultura di un manager è lontana anni luce da quella di una startup. Mentre il primo lavora per contenere i rischi ed evitare l’errore, la seconda deve esplorare l’ignoto e, attraverso tanti errori ed esperimenti, imparare, per trovare infine il suo filone di business: “Una startup opera in una situazione di estrema incertezza, di business, tecnologica, di team; un mindset molto diverso da quello di un manager”, commenta Mainetti. Il programma prevede dunque di fornire ai manager aziendali le giuste metodologie e gli strumenti per comunicare e collaborare con le startup. Lo fa attraverso un percorso che parte da 3 giornate di training presso il MIP dove si fornisce un kit di strumenti che servono al manager per lavorare con una startup e per valutarla, secondo criteri diversi da quelli utili per valutare un’impresa sul mercato). Segue un laboratorio di 8 settimane durante il quale il manager lavora come mentor, con la supervisione di un mentor senior, interagendo quotidianamente con una startup selezionata non fra quelle già incubate, ma quelle considerate non ancora pronte. “Ci sono il team, l’idea, il brevetto… ma mancano ancora alcuni elementi”, spiega Mainetti. A conclusione è previsto un periodo di lavoro di 4 mesi in una startup vera.
Innovation District. Il Technology hub in Bovisa (Milano) è pensato per incoraggiare la collaborazione fra le startup hitech del Politecnico e le imprese. È questo l’ultimo passo, un vero laboratorio dove l’azienda entra per lavorare con le startup, portando le necessità del business, in uno scambio win-win (figura 5).
PoliHub vs esperienze internazionali
L’iniziativa del Politecnico di Milano ha i numeri per reggere il confronto con quelle di livello internazionale (figura 6). Ma, numeri a parte, “siamo competitivi per creatività e imprenditorialità. Nel benchmark ci misurano per capacità di creare impatto, piuttosto buona se commisurata al piccolo ecosistema italiano (1 a 380 se ci confrontiamo alla Silicon Valley)”, sottolinea Mainetti che indica fra gli aspetti negativi una cultura imprenditoriale sopita e la scarsa propensione a giocare una partita globale per cambiare il mondo.
“Viene vissuta male la capacità di effettuare più round di finanziamento e aumentare l’indebitamento delle startup per accelerarne la crescita e la possibilità di andare rapidamente sul mercato globale”, aggiunge, segnalando la difficoltà nel superare la cultura da neo-artigiani per seguire una vera logica di industrializzazione del prodotto. “Sul versante imprese c’è ancora scarsa sensibilità degli imprenditori e dei manager che li spinga a una presenza nel distretto con grant e donazioni – conclude Mainetti – Si preferisce invece ‘comprare’ un progetto (spesso a basso costo) piuttosto che investire per fare leva a favore di un’innovazione di sistema”.
In conclusione, c’è ancora molto da fare per valorizzare la ricerca e trasformarla in sviluppo del Paese e accelerazione della trasformazione del business: vanno superati i limiti di provincialismo sul versante delle startup e la tuttora scarsa sensibilità sul versante delle imprese. In positivo, va segnalato che entrambe le iniziative non cercano finanziamenti pubblici (PoliHub, a differenza della maggior parte degli incubatori universitari internazionali si basa solo su risorse private), ma puntano soprattutto sul mercato. Un esempio da seguire.