L’ultima goccia che fa traboccare il vaso è il sonoro nome di HPE. Questo gigante statunitense della tecnologia non è che l’ultimo di una serie di aziende che dirigono la propria attenzione verso l’India. Prima ancora che un mercato dai numeri potenzialmente ineguagliabili, il Paese rappresenta un luogo quasi ideale in cui delocalizzare la produzione. Molte sono le ragioni intrinseche, ma anche le recenti scelte del governo hanno incoraggiato il trend.
La decisione da 1 miliardo di HPE
Ciò che HPE ha annunciato è l’intenzione concreta di iniziare a produrre alcuni dei suoi server ad alto volume in India. Si tratterebbe di box x86 con montaggio a rack 2U, come il suo modello ProLiant DL380. L’obiettivo è quello di produrre kit per un valore di 1 miliardo di dollari nei prossimi cinque anni.
Per mettere a terra il proprio piano, l’azienda di infrastrutture IT ha stretto una partnership con il produttore indiano VVDN Technologies, usufruendo del suo stabilimento di Manesar, Haryana.
Dietro a questa scelta che stupisce solo parzialmente il settore, si cela una strategia a lungo termine e su scala globale. L’operazione, in apparenza locale, oltre a sostenere la crescente domanda da parte dei clienti indiani, ha anche lo scopo di rafforzare e diversificare l’intera supply chain di HPE.
Affianco, c’è poi il desiderio di coltivare un rapporto speciale con il gigante asiatico, supportando l’iniziativa “Make in India”, lanciata dal governo indiano per un Paese sempre più digitalmente autonomo. È anche per questo che HPE fa sapere che la sua forza lavoro in India è la più grande dell’azienda al di fuori degli Stati Uniti. La gran parte sarebbe concentrata nel campus di Mahadevapura a Bengaluru (Bangalore), considerata la sede di molte delle risorse di sviluppo prodotti di HPE a livello mondiale.
Tutti in India, il nuovo regno manifatturiero IT
Dal punto di vista indiano, la scelta di HPE per una produzione di hardware IT su larga scala è un passo importante per il Paese. Permetterà di ampliare e approfondire il suo ecosistema produttivo su cui hanno già deciso di scommettere anche altre big tech.
Cisco, solo a maggio, ha annunciato di voler produrre parte del proprio hardware nel Paese. Si tratterebbe di “tecnologia best-in-class” in grado di portare oltre 1 miliardo di dollari di esportazioni e produzione nazionale nei prossimi anni. Un’altra statunitense che ha compiuto una scelta simile è la produttrice di chip di memoria Micron, investendo in un impianto di assemblaggio e test di chip nel Gujarat operativo entro la fine del 2024.
A questo gruppo di aziende in arrivo da oltreoceano si unisce Foxconn, con sede a Taiwan. Questa produttrice di kit per Apple già lo scorso anno aveva annunciato un investimento di 500 milioni di dollari per espandere la propria presenza produttiva in India. È stata di parola e, a maggio, ha inaugurato una nuova fabbrica nello stato di Telangana.
“Unendo i puntini”, tirando le somme, risulta evidente che l’India stia traendo un forte vantaggio dalla probabile uscita di scena della Cina come destinazione di outsourcing preferita al mondo. Un fenomeno ancora agli inizi, probabilmente innescato – o per lo meno incoraggiato – dalle sanzioni degli Stati Uniti, mirate a limitare l’accesso del Regno di Mezzo a tecnologie avanzate per applicazioni AI. Ma non solo: c’è da riconoscere un merito anche al governo indiano che non ha lesinato in sovvenzioni per rendere assai vantaggiosa ogni decisione di insediamento produttivo sul proprio territorio.