Le forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti per fare terra bruciata attorno alla Cina sembrano dare i loro frutti. Nel mirino c’è il settore della produzione di chip, per questioni di sicurezza nazionale. Dopo i Paesi Bassi, la scorsa settimana, anche il Giappone ha deciso di introdurre delle limitazioni alle esportazioni. In entrambi i casi, i governi si sono mossi in modo prudente, restando appositamente vaghi dal punto di vista geopolitico. Un approccio ben diverso da quello adottato dagli USA.
I nuovi vincoli per chi esporta tecnologia per chip
Il ministero del Commercio giapponese ha spiegato la propria scelta etichettandola come parte di una strategia per la pace e la stabilità internazionale. Ecco, quindi, la natura “neutra” del provvedimento annunciato sui chip. Le restrizioni giapponesi hanno un tono, e un contenuto, ben diversi da quelli degli “alleati” statunitensi.
La Casa Bianca ha da subito imposto ampie restrizioni all’esportazione espressamente rivolte ai produttori di chip cinesi e alle istituzioni governative. Diversamente ha fatto il Giappone che, con tutt’altro stile, ha annunciato un aumento dei controlli sulle esportazioni in generale. Da luglio, infatti, entreranno in vigore nuove regole che richiederanno ai fornitori giapponesi di attrezzature e materiali per semiconduttori di ottenere un’autorizzazione prima di esportare kit. Un obbligo che vale per qualsiasi regione: la Cina non è citata, proprio come non è stata citata dai Paesi Bassi, qualche mese fa.
Anche questo piccolo ma strategico Paese, infatti, sembra aver ceduto alle pressioni USA sull’esportazione dei chip “a modo proprio”, non scagliandosi contro la Cina in particolare. Si era anch’essa concentrata sulla prevenzione dell’uso di tecnologie sensibili per applicazioni militari indesiderate da parte di potenze straniere.
Per gli USA una vittoria non definitiva
Nonostante lo stile più vago dei provvedimenti, la mossa del Giappone è stata letta dai più come una vittoria per gli Stati Uniti. Stando ai fatti, la scelta compiuta impatterà sull’economia e sul potere tecnologico della Cina, nonostante non figuri come un provvedimento specifico per danneggiarla.
Considerando che gli USA non hanno il potere di proibire ad altre nazioni di fornire kit per la produzione di chip alla Cina, quello ottenuto con “semplici pressioni internazionali” è un risultato soddisfacente. Non ha un valore solo simbolico, non ha un rilievo solo mediatico. Proprio come i Paesi Bassi, anche il Giappone può essere considerato un fornitore chiave di apparecchiature di produzione. La sua “specialità” sono le macchine per la litografia ultravioletta profonda (DUV), utilizzate per produrre chip fino a circa 10 nm. Se ne occupano anche due note aziende come Canon e Nikon.
Nell’entusiasmo statunitense di mettere la Cina sempre più in difficoltà, via via che i Paesi strategici introducono restrizioni, va ricordato che per ora non sono emersi divieti espliciti e mirati. Sia i Paesi Bassi, sia il Giappone, hanno aumentato i controlli sull’esportazione di tecnologie legate ai chip, ma ciò non equivale a tagliare fuori i produttori cinesi. Per ora, fuori dai confini degli Stati Uniti, non compare alcun divieto assoluto di commercio con la Cina e, molto probabilmente, mai comparirà.
Sarebbe una scelta fortemente “detonante”, pericolosa per paesi che vogliono apparire come garanti neutri della pace mondiale e, soprattutto, che devono fare i conti con la propria economia interna. Tagliare fuori la Cina in toto, potrebbe significare anche tagliare in modo consistente le entrate di un settore tecnologico decisamente strategico, anche a livello nazionale.