Il tema dello smart working va inserito nel più ampio tema del lavoro che sta subendo trasformazioni epocali anche in Italia. Secondo l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, la capacità di attrarre candidati è notevolmente diminuita dopo la pandemia. Il 44% delle aziende incontra difficoltà nel motivare, coinvolgere e trattenere le persone già presenti al loro interno, mentre il tasso di turnover è aumentato nell’ultimo anno per il 73% delle aziende.
Il fenomeno delle Grandi Dimissioni ha interessato anche il nostro Paese: il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Questi valori sono particolarmente alti per i giovani, per settori come ICT, Servizi e Finance e per professionalità digitali. Molte persone oggi cambiano lavoro, anche a condizioni economiche inferiori, per seguire passioni e interessi personali od ottenere maggiore flessibilità.
Lo smart working rappresenta un elemento di attrazione per i lavoratori. Il 45% ritiene lo smart working un’opportunità positiva e il 58% vorrebbe mantenere la possibilità di lavorare in remoto almeno due-tre giorni la settimana, come evidenzia un’indagine Fim-Cisl, condotta nel 2021 in collaborazione con Adapt e l’Università Cattolica.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, dopo il picco di 5,37 milioni di gennaio 2021, il numero di smart worker si è contratto nel terzo trimestre dell’anno, in gran parte per del rientro in sede dei lavoratori pubblici. Tuttavia questa diminuzione non indica il declino dello smart working, visto che sono in aumento i progetti più o meno strutturati previsti dall’81% delle grandi imprese e dal 67% delle PA.
Situazione attuale dello smart working nel settore privato e in quello pubblico
Il quadro normativo non sembra al momento in grado di disegnare con chiarezza le prospettive del lavoro agile; l’unico punto fermo è rappresentato dalla Legge 81/2017, forzata per accogliere le necessità emerse dalla pandemia. Lo ha sottolineato, in un incontro organizzato da Sda Bocconi, “Smart working e valore condiviso fra impresa, persone e comunità”, Maurizio del Conte che ha partecipato dal 2015 alla stesura della legge.
Lo spirito della normativa del 2017 si basava su un accordo volontario e individuale, a partire dall’analisi dell’effettiva utilità per il lavoratore e il datore di lavoro. Le circostanze hanno però spinto la legge nell’ambito di una remotizzazione forzata che in parte la stravolge. Lo smart working in regime semplificato adottato in fase di emergenza prevede ad esempio la possibilità di ricorrere al Lavoro Agile, senza l’accordo individuale. Questa normativa è stata prorogata per il settore privato, oltre la fine dell’emergenza, fino al 30 giugno 2022 e successivamente al 31 agosto (Decreto riaperture). È invece decaduta per il pubblico che dal 1 aprile è tornato alla legge del 2017.
Alcuni correttivi per il lavoro agile in fase post pandemia nel settore privato erano stati definiti con il Protocollo del 7 dicembre 2021, che forniva le linee guida per una futura contrattazione collettiva, mantenendo gli accordi in essere anche individuali.
Particolarmente importanti le precisazioni sulla libertà per il lavoratore di scegliere il luogo di lavoro, garantendo condizioni di sicurezza e riservatezza e l’autonomia con cui vengono svolte le attività, senza un preciso orario di lavoro, entro i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale. Questa apparente assenza di vincoli non esclude tuttavia che il datore di lavoro possa definire un orario di reperibilità, una pianificazione del programma settimanale o l’obbligo di lavorare in sede in determinati giorni. Il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche era già stato definito (anche su sollecitazione UE) con DL 30/2021 approvato a maggio 2021.
Nella PA valgono le Linee guida in materia di lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche messe a punto dal ministro Renato Brunetta in accordo con i sindacati ed erogate a dicembre 2021, che limitano lo smart working a un massimo del 15% dei dipendenti per ente, nel rispetto di alcune condizioni. Sarebbe tuttavia sbagliato abbandonare un’esperienza che ha sicuramente portato numerosi benefici per le PA in termini di miglioramento delle competenze digitali e digitalizzazione dei processi, nonostante le criticità emerse.
È il caso della mancanza di un’adeguata cultura basata sui risultati (rilevata dal 34% delle PA), il timore di un peggioramento delle prestazioni lavorative (18%) e la presenza di ruoli incompatibili con il lavoro da remoto (18%).
Un disegno di legge per lo smart working
È evidente il clima di provvisorietà del lavoro agile che potrebbe in parte essere superato da un’azione legislativa. La commissione Lavoro della Camera sembra aver trovato l’accordo su un disegno di legge sullo smart working nel quale confluiscono una decina di proposte presentate dai partiti in Parlamento per sostituire la legge attuale.
Alcuni punti fermi sarebbero:
- il mantenimento dell’accordo individuale tra lavoratore e impresa, definendo alcune agevolazioni per particolari categorie di lavoratori, da inserire negli accordi collettivi;
- il diritto alla disconnessione, con l’introduzione di norme penali per chi lo viola;
- il divieto di differenze salariali tra i lavoratori in modalità agile e quelli in presenza;
- incentivi per le imprese, fra cui crediti di imposta sull’acquisto degli strumenti informatici da dare in dotazione ai lavoratori in smart working;
- istituzione di un Fondo per la promozione del lavoro agile presso il ministero del Lavoro, con una dotazione di 80 milioni di euro annui a decorrere dal 2022.
Questa proposta, nonostante la buona intenzione di superare un vuoto legislativo, suscita perplessità in assenza di adeguate iniziative da parte delle organizzazioni private e pubbliche. Queste, secondo del Conte, quando hanno adottato le policy di smart working hanno utilizzato una strumentazione “rozza” andando a redistribuire un alleggerimento per i lavoratori e ottenere qualche risparmio in termini di occupazione spazi.
“Se il dibattito continua con questa superficialità, senza affrontare i nodi veri nelle organizzazioni, il legislatore entrerà a gamba tesa”, dichiara, invitando a ritrovare il senso del dibattito sullo smart working, a partire dalla regolazione giuridica che segue il cambiamento sociale.
L’introduzione strutturale del lavoro a distanza lascia inoltre aperti temi come la misurabilità delle prestazioni, come evidenzia Amelia Parente, Rare Condition, Government Affairs & Transformation Director, Roche Italia, ricordando l’esperienza in seguito alla pandemia della sua azienda: “Venivamo da una riorganizzazione basata su team per il 70-80% con cellule interorganizzative funzionali con outcome comune”.
Le valutazioni delle performance a livello di team di pari erano basate, a livello qualitativo, sui comportamenti. Ma sciogliendo il team e i vincoli di spazio-tempo su base organizzativa stabile, dove e come osservare comportamenti? Servirebbe una ri-organizzazione reale, impossibile se, come accade, mancano i progettisti organizzativi, sostiene: “Il rischio è allora che quello sullo smart working si trasformi in un dibattito ideologico”.
Il futuro dello smart working
Nessuno, tuttavia, ritiene possibile o sensato tornare alle modalità di lavoro pre-pandemia. “Occorre ricordare che lo smart working non è solo una misura per conciliare vita e lavoro, che non si tratta solo di lavorare da casa e che la flessibilità di luogo e orario possono costituire un vantaggio per dipendenti e datori di lavoro – sostiene Fiorella Crespi, Research Director HR Innovation Practice and Smart Working, Osservatori Politecnico di Milano – Per cogliere i reali benefici dello smart working, molte aziende devono ancora compiere un cambiamento organizzativo e culturale, così come adottare nuovi modelli manageriali”.