Competenze digitali, il mercato del lavoro e il ruolo dell’Università in Italia

La società digitale non necessita solo di specialisti ma richiede, in tutti i settori e le aree aziendali, competenze digitali di qualità e un approccio imprenditoriale che i nativi digitali, nonostante i luoghi comuni, non possiedono in modo innato, come un’indagine fra gli studenti universitari, svolta da University2Business, evidenzia. L’università ha dunque una grande responsabilità: nel preparare i giovani al mondo del lavoro deve sapersi reinventare per offrire una formazione più fluida e dinamica; una trasformazione che riguarda anche le istituzioni di paesi digitalmente più avanzati che faticano a tenere il passo con le richieste che provengono dal mercato del lavoro e rischiano, come negli altri settori industriali, l’attacco da nuovi competitor.

Pubblicato il 18 Mar 2016

“In un’economia matura come quella italiana, i due principali motori della crescita sono l’innovazione digitale e la nuova imprenditorialità”. Se concordiamo con questa affermazione fatta Andrea Rangone, Ceo di Digital360, in occasione della presentazione della ricerca “Il futuro è oggi: sei pronto?”, l’università ha una grande responsabilità nei confronti dei propri studenti, del mondo delle imprese e del Paese. L’indagine è stata realizzata da University2Business (Gruppo Digital 360) attraverso 1.389 questionari a studenti universitari, campione rappresentativo (per distribuzione territoriale, area disciplinare e genere) dell’universo degli iscritti (età <31 anni) di 1.630.216 (fonte Miur)
Gli studenti universitari rappresentano infatti la punta di diamante delle forze giovani chiamate a trasformare le organizzazioni e le imprese esistenti e a crearne di nuove.
Come evidenzia Terri-Lynn Thayer, Research Director di Gartner, le università devono definire modelli più fluidi per rispondere alle richieste che vengono dalle imprese. “I datori di lavoro incontrano un significativo e crescente skill gap rispetto alla forza lavoro qualificata, causato anche dallo scarso coordinamento con le istituzioni di formazione universitaria e post-universitaria che preparano la prossima generazione di lavoratori”.
Ma c’è una speranza: il digitale che ha scatenato la tempesta aiuterà a risolverla. “La tecnologia sta rendendo possibile la formazione ‘just-in-time’ e l’economia la sta rendendo necessaria”, è l’opinione del giornalista di The Chronicle of Higher Education, Jeff Selingo.

Essere nativi digitali non basta per avere le competenze giuste

Figura 1: Readiness dei giovani universitari all’imprenditorialità digitale
Fonte: University2Business

L’indagine precedentemente citata, per verificare la readiness dei giovani universitari, ha affrontato cinque ambiti: l’utilizzo di Internet e dei social; l’esperienza progettuale concreta nel digitale; le conoscenze teoriche sull’innovazione digitale; le competenze nello sviluppo software; la propensione imprenditoriale non solo teorica. Sulla base delle risposte sono stati identificati dei cluster che, accanto al 42% di ragazzi in panchina (che non hanno propensione all’imprenditorialità e competenze digitali) e 35% di teorici, vedono il 10% di proattivi digitali, il 9% di intraprendenti non digitali e il 5% di imprenditori digitali (figura 1).
Accanto a una maggioranza di studenti che si affaccia al mondo del lavoro con scarsa conoscenza della trasformazione digitale, un approccio passivo e una scarsa sensibilità imprenditoriale, emerge dunque solo un piccolo drappello che ha capito l’importanza di saper utilizzare le tecnologie digitali, si pone in modo proattivo e ha un approccio imprenditoriale. Sono pochi per le necessità di un Paese che è stato classificato al 25-esimo posto su 28, nella classifica europea Digital economy and society index 2016 da poco pubblicata. Come la figura 2 evidenzia, siamo lontani non solo dalla media europea, ma anche dai paesi in ripresa, su aspetti che riguardano da vicino il potenziale di trasformazione come le risorse umane e l’uso di Internet.
Un confronto internazionale su competenze digitali e imprenditorialità degli studenti universitari non è disponibile, anche perché l’Italia non ha partecipato al “modulo digitale” di Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies – Ocse), l’inchiesta sulle competenze degli adulti; nelle due aree in cui ha partecipato (competenze linguistiche e matematiche) risulta agli ultimi posti fra i paesi Ocse. Su questo posizionamento negativo incide soprattutto le fascia anziana (55-65 anni). Sono migliori i risultati delle fasce più giovani anche se al di sotto di quelli dei paesi più performanti.
Un altro riscontro viene dal test Pisa (Programme for International Student Assessment – Ocse) sui 15-enni. “Solo il 4% degli studenti italiani abbina sia top skill digitali sia top skill di lettura tradizionale (misurata su una scala dedotta da test di lettura orientata al problem-solving), pur collocandosi all’interno della media Ocse, ma ben al di sotto dei paesi più avanzati. È più preoccupante invece che “i quindicenni italiani abbiano il 5% di probabilità in meno di risolvere problemi matematici usando correttamente supporti Ict, rispetto alla media dei paesi presenti dell’indagine”, come sottolinea Thomas Manfredi, ricercatore Ocse.

Figura 2: Fattori che determinano la classifica europea dei paesi pronti per la trasformazione digitale
Fonte: Digital economy and society index 2016

Tutti questi dati evidenziano che la soluzione non potrà semplicemente venire dal cambio generazionale, ma è necessario un salto di qualità nella formazione che chiede all’Università di mettersi in gioco, più di quanto abbia fatto finora, per recuperare al digitale anche gli studenti oggi ancora in panchina.

Approccio outside-in anche per l’università

Il problema del resto riguarda anche i paesi più avanzati, dove le università devono fronteggiare la concorrenza in arrivo da settori limitrofi. “L’università deve cambiare mentalità, da una logica inside-out, molto centrata sull’istituzione formativa, verso una mentalità focalizzata sulle necessità degli studenti e delle loro famiglie”, sostiene Thayer.
L’università deve partire, secondo Gartner, dai suoi punti di forza come brand e capacità di collaborazione, utilizzando la tecnologia per spingere l’innovazione e puntando sulla capacità di realizzare partnership con le imprese e con altre organizzazioni di formazione. Un esempio è il tema dell’apprendimento della programmazione, la cui importanza è evidenziata dal raddoppio nell’ultimo anno del numero di studenti Usa che frequentano coding boot camp a pagamento. Per inciso, l’indagine Univerity2Business evidenzia che fra gli studenti maggiormente digital ready cresce il numero di quelli che sanno sviluppare, tra i quali 3 su 4 si collocano fra gli imprenditori digitali.
Il tema del coding è ben presente anche in Italia e sta portando a iniziative ‘volontarie’ come i centri per far avvicinare i bambini alla programmazione e al mondo Arduino sostenute da Hpe, come ha ricordato, in occasione della presentazione dell’indagine  University2Business, Enrico Martinez, Direttore Formazione Sviluppo e Innovazione sociale dell’azienda, sottolineando il ruolo stimolo di Stefano Quintarelli, oggi Deputato e Presidente del Comitato di Indirizzo dell’Agenzia per l’Italia Digitale. “Domani il coding sarà come l’inglese di oggi, non se ne potrà fare a meno”, sostiene Quintarelli.
Per soddisfare questa “fame” di coding le università italiane possono seguire percorsi analoghi a quelli riportati da Gartner, che vedono partnership con aziende di formazione private?
E ancora. È possibile ipotizzare il ricorso a un sistema tipicamente digitale come il crowdfunding, suggerito da Gartner, per finanziare progetti o percorsi di formazione in un contesto come il nostro, dove il finanziamento è sostanzialmente pubblico?
In ogni caso c’è necessità anche da noi di un approccio più fluido alla formazione universitaria per poter reagire rapidamente in una logica just-in-time. Anche le università dovrebbero ormai dotarsi degli strumenti tipici delle imprese per ascoltare le esigenze dei propri clienti-studenti, migliorare la loro esperienza, cercare la loro collaborazione, imparando anche da settori distanti come il retail, suggerisce ancora Gartner. Una ragione delle possibili criticità legate al corretto inserimento dei giovani in azienda la spiega bene Ezio Melzi, Consigliere Delegato di Bravo Solution Italia, commentando l’indagine University2Business: “Le aziende devono inserire i giovani e sfruttare il loro pensiero out of the box, non spegnerlo in percorsi tradizionali”.
All’Università va dunque richiesto non solo di formare studenti digitalmente consapevoli e attivi, ma anche l’impegno di rieducare, in ottica digitale, anche i decisori aziendali. È troppo?

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