I primi 100 giorni del governo Conte sono stati l’occasione, su quotidiani, web e TV, per le prime considerazioni sull’alleanza giallo-verde e le azioni messe in campo per dare (o non dare) seguito alle promesse elettorali. Lasciando alla cronaca politica queste analisi, ZeroUno, proseguendo nell’iniziativa lanciata prima delle elezioni 2018 per raccogliere idee e spunti dal mercato da proporre a un dibattito anche con interlocutori istituzionali, ha colto questa occasione per approfondire con Giancarlo Capitani, presidente di NetConsulting Cube, il tema dell’approccio della politica verso l’innovazione del sistema paese.
ZeroUno: Focalizzandoci sugli aspetti più legati ai temi della competitività delle nostre imprese (figura 1), quali sono gli strumenti che la politica potrebbe mettere in campo per sostenere l’innovazione del sistema paese?
Who's Who
Giancarlo Capitani
Giancarlo Capitani: Il ruolo del digitale nello sviluppo del Paese può essere approcciato, in estrema sintesi, in due modi:
- una modalità è quella orientata alla razionalizzazione che riguarda sia le imprese sia l’utilizzo del digitale nella PA (che a sua volta impatta poi positivamente sulla relazione con le imprese in termini di snellimento delle pratiche burocratiche, rapidità di risposta ecc.). Negli ultimi anni in entrambi i contesti ha regnato il mantra del cost saving. Nella Pubblica Amministrazione, per esempio, il tema dell’efficientamento dei processi ha avuto una declinazione estrema nella sciagurata legge di stabilità che inserì nel Piano Triennale per la PA l’obbligo di un risparmio del 50% sulla spesa in operation da destinare alla realizzazione di progetti innovativi: più o meno tutte le amministrazioni colsero il diktat del risparmio, poche quelle che lo convertirono in reali piani di investimento. È una visione che ha molto penalizzato gli obiettivi che Agid si era data.
- l’altra modalità è quella di considerare ICT e digitale come strumenti di crescita del paese per aumentarne competitività e produttività, il che significa aumentare la componente tecnologica nelle imprese, a tutti i livelli.
Le politiche italiane non sono mai state orientate a questa seconda modalità, tranne Industria 4.0 che ha avuto, da questo punto di vista, un ruolo molto importante che ha permesso alle aziende industriali sane (ricordiamo che non si è trattato di un finanziamento all’innovazione ma di un incentivo che si concretizzava, attraverso iper ammortamento e sgravi fiscali, solo dopo che le aziende avevano investito) di ammodernare molto il proprio patrimonio tecnologico.
ZeroUno: È dunque auspicabile che il governo lavori in continuità con questo tipo di interventi? E in questo caso, come potrebbero sostanziarsi attività migliorative che consentano di ampliare la portata di questo disegno?
Capitani: Sicuramente sì è la risposta alla prima domanda, mentre per rispondere alla seconda ritengo che la politica industriale orientata all’innovazione dovrebbe muoversi lungo 3 traiettorie:
- In primo luogo bisogna traguardare un passaggio da azienda individuale alla dimensione collettiva, territoriale, di ecosistema. Le PMI, che rappresentano la base del tessuto economico italiano, faticano ad accedere a questo tipo di incentivi per le difficoltà finanziare ad effettuare investimenti [in effetti, dai dati del Secondo Rapporto Industria 4.0 nelle PMI italiane del Laboratorio Manifattura Digitale dell’Università degli Studi di Padova emerge che il processo di adozione delle tecnologie Industria 4.0 nelle PMI è ancora limitato (19% del campione composto da 1.020 imprese) e dall’Osservatorio Industria 4.0 degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano risulta che la scarsità di risorse finanziaria è per le PMI il principale ostacolo all’adozione di Industria 4.0, figura 2, ndr]
È dunque necessario valorizzare e spingere iniziative come i Digital Innovation Hub (DIH) che hanno un valore immenso come indicazione perché riportano in auge tutta la potenza economica dei distretti e la necessità di configurare questi sistemi di innovazione più a livello micro-territoriale (a oggi i DIH sono regionali) che, partendo dalle specifiche esigenze del territorio consentano di elaborare prototipi, soluzioni e percorsi di adozione adatti alle caratteristiche del luogo. Quindi la prima enfasi che darei alle nuove politiche è proprio il sostegno a questo passaggio strutturato che rompe anche gli schemi del passato nella relazione tra PA e imprese perché i DIH sono aggregati che comprendono università, imprese, centri di ricerca ma anche pubblica amministrazione.
- La seconda traiettoria che a mio parere è importante da perseguire è la trasformazione del modello Industria 4.0 in Impresa 4.0 andando a toccare non solo gli strati della produzione e della logistica delle imprese manifatturiere, ma integrandosi con il rinnovamento di tutta la componente gestionale, anche quella più “alta”. E da questo punto di vista c’è da fare un inciso importante che riguarda le competenze e che è chiaramente emerso nell’Osservatorio Competenze Digitali [condotto da Aica, Anitec-Assinform, Assintel e Assinter Italia, in collaborazione con MIUR e Agid, realizzato con il contributo di NetConsulting Cube, ndr]: oltre che nella conosciuta scarsità di figure tecniche di un certo tipo (data scientist in primis) la vera criticità nel processo di digitalizzazione delle imprese risiede nella carenza di figure che abbiano competenze digitali nei ruoli tradizionali non tecnologici (legal, risorse umane ecc.). Anche Impresa 4.0 [la release 2 del Piano Industria 4.0 ndr] non risponde a queste esigenze perché c’è una giusta enfasi, con relativi finanziamenti, per l’apertura nei territori di istituti tecnici professionali dedicati alle nuove tecnologie, ma manca un tema importante: l’introduzione di un consistente set di materie tecnologiche anche nei corsi umanistici. Il paradigma della pervasività della digitalizzazione deve essere utilizzato anche nella formazione e questo è un aspetto poco curato dalla politica che invece dovrebbe essere il primo attore a farsene carico.
- Infine bisognerebbe riuscire a capitalizzare il modello Industria 4.0 adottato per le imprese manifatturiere anche per le imprese di servizi. In queste ultime, che pure rappresentano il 60% del tessuto economico italiano, il quadro relativo alla digitalizzazione è sconfortante [rimandiamo a questo proposito alla figura 3 che mostra il livello di digitalizzazione nei diversi comparti industriali e nel variegato ambito dei servizi basato sull’analisi compiuta da Istat, ndr].
Il problema è che nei settori industriali abbiamo aziende con dimensioni più grandi che, come si è detto, hanno le risorse finanziarie per accedere a incentivi come quelli di Industria 4.0 e possono quindi sperare di recuperare il gap, ma il settore Servizi è caratterizzato da realtà dimensionalmente molto piccole (la media è di meno di 10 addetti per impresa) e molto labor intensive. Bisogna trovare per forza un modello diverso perché il vero problema della scarsa produttività del nostro sistema economico deriva proprio da questa componente.
ZeroUno: Ma se, da un lato, i finanziamenti a pioggia, come il passato ci insegna, hanno scarse probabilità di successo e, dall’altro, incentivi sul modello Industria 4.0 vedono un grande ostacolo nella capacità finanziaria di questi soggetti, quali interventi si possono ipotizzare?
Capitani: Dal mio punto di vista, ci sono due azioni che andrebbero perseguite contestualmente:
- l’obbligo di legge, come è avvenuto per la fatturazione elettronica. Obbligo che, proprio per le caratteristiche di queste realtà, deve essere accompagnato da facilitazioni. Non sono in grado di fornire ricette, bisogna verificare bene ciò di cui queste imprese hanno bisogno, ma un esempio possono essere incentivi ad adottare il cloud: se uno studio professionale, un negozio, una qualsiasi realtà del comparto servizi non è in grado di dotarsi di un proprio sistema informativo, la si incentiva a utilizzare la modalità cloud. E se incrociamo il concetto di software as a service con quello di Digital Innovation Hub ecco che si apre la possibilità di fruire di applicazioni sviluppate sul territorio in modalità accessibili anche a una piccola azienda. Il ritardo è troppo forte per poterlo vincere solo con strumenti culturali, è necessario utilizzare strumenti impositivi, di obbligatorietà.
- L’altro tema importante riguarda il fatto che non esiste più una divisione netta tra industria e servizi, così come è sempre più labile tra le varie industrie: bisogna ragionare in termini di filiera. E se si adotta una visione di questo tipo, il modello di riferimento è quello degli ecosistemi digitali, delle API, ma sicuramente è un discorso complesso dove i DIH possono, ancora una volta, fornire un importante supporto, che però richiede una vision complessiva di sviluppo con interventi in molteplici ambiti.
ZeroUno: Per esempio?
Capitani: Prima di tutto, come detto, in ambito formativo dove, insieme alla pervasività delle competenze digitali bisogna porre l’accento su quali soft skill sono necessari anche in ruoli tecnologici. E poi c’è un tema molto delicato, ma che dovrebbe essere affrontato con urgenza, così come hanno fatto quegli stati dove, per esempio, hanno avuto i maggiori successi i progetti di smart city: se si vuole una digitalizzazione pervasiva bisogna cambiare le norme. Non è possibile innovare il paese con regole vecchie. Sburocratizzare, semplificare, adeguare le normative ai nuovi contesti, incentivare relazioni collaborative è indispensabile per sfruttare le opportunità del digitale nel costruire un Paese veramente “smart”.